60 anni fa, il regista Hiroshi Teshigahara rilasciò quello che senza alcun dubbio è il suo capolavoro e uno dei film giapponesi più apprezzati e importanti della storia del cinema: La donna di sabbia (tit. orig. Suna No Onna).
Adattamento dell’omonimo romanzo del 1962 di Kobo Abe, il film si è affermato internazionalmente a Cannes (Grand Prix della giuria) e agli Oscar (con due nomination in due diverse edizioni: Miglior Film Straniero nel 1965 e Miglior regia nel 1966).
L’opera è uno struggente mosaico su due creature incatenate ad un’esistenza contraddittoria, e dimenticate sul fondo della civiltà umana, che scoprono il potere di stringersi l’un l’altra e che nella tragica comunione di una vita insieme di lavoro interminabile, trovano la possibilità di essere felici.
Dal profondo a voi, grido
Un insegnante con l’hobby di collezionare insetti che vivono nella sabbia (Eiji Okada), perde l’ultimo autobus per tornare a Tokyo. Soggiorna quindi per quella notte nella casa di una vedova del posto (Kyoko Kishida), la cui abitazione è in fondo ad una depressione che rischia sempre di riempirsi di sabbia. Suo malgrado l’uomo si ritroverà intrappolato in quell’abisso sabbioso da cui cercherà in ogni modo di fuggire.
La storia, minimale ed esistenzialista, poggia su tre figure, l’insegnante, la vedova e la comunità di lei, con un unico luogo, quella casa sul fondo del mondo, e un problema incombente, ovvero la sabbia, assillante e simbolica.
Durante la visione del film, quell’abisso diventa la metafora di coloro che non esistono e che abitano quei luoghi che non vengono mai raccontati; in quella che teoricamente è per tutti una non-esistenza, una pena di Sisifo, riescono comunque a germogliare l’amore, la felicità, l’ambizione. In quel pozzo non solo si tocca la rinuncia all’immenso, corrotto e frenetico mondo civile (come è oggi ed era allora), ma si riscopre la vera esistenza: se è vero che non si vive per spalare sabbia, allora non si dovrebbe nemmeno vivere solo per produrre, produrre, e produrre ancora. Non si esiste come funzione di un’azione che si deve fare, ma si esiste e basta: in quest’esistenza c’è la possibilità di essere infelice o meno.
Non ti sembra che questo non abbia alcun senso? Raccogli sabbia per vivere, o vivi per raccogliere sabbia?”
Il collezionista di insetti
Fuori e non al limite della civiltà
Subito nel film l’uomo inquadra la civiltà umana come un recinto di pezzi di carta, documenti che stabiliscono il posto di ogni persona nel mondo civile, ma quei documenti, e i discorsi relativi alla civiltà stessa, non hanno senso per la vedova.
In fondo al pozzo ci sono solo i loro corpi e la sabbia, metafora degli innumerevoli problemi che piovono, inabissano la vita umana, e contro cui ogni giorno si lotta, nella civiltà come fuori da essa. Eppure solo quella sabbia tiene in vita la donna, perché come gli dice, “Se non fosse per la sabbia nessuno si preoccuperebbe per me. Nemmeno tu.”
Ecco che la sabbia come metafora di ogni problema è tale solo per l’occhio che la vede così, per altri è quasi una benedizione. La contraddizione si amplia dal pozzo a coloro che ne abitano la superficie, e che si fanno carico di portar via la sabbia dalla depressione; per quanto le loro azioni risultino basse o miserevoli, non sono mai diversi da i due protagonisti che vivono sul fondo.
Così quella fossa diventa un posto al di fuori della civiltà, al di là dei ghetti, delle discariche e delle favelas: una trappola dimenticata dal mondo dove l’esistenza si afferma in maniera minimale, problematica, ma genuina e coraggiosa.
Un uomo, una donna
L’insegnante, il cui nome verrà svelato solo alla fine, quando risulterà inutile e quando quel nome apparterrà ad una società che lo ha dimenticato, è il moderno Sisifo: rappresenta la condizione di assurdità della vita umana moderna, che è imprigionante quanto il pozzo stesso.
Lei è una figura enigmatica, carica di erotismo e spontaneità, capace di seppellire il marito e la figlia nello stesso posto che ogni notte deve dissotterrare dalla sabbia che dunque l’ha resa vedova. Quella donna non risolve la sua esistenza con l’arrivo dell’uomo, ma sembra quasi servirsene per il lavoro e per un fugace contatto carnale che la trasporti lontano da quell’abisso: e così si stringono, per non finire l’esistenza in una solitudine angosciante, e per trascinare l’altro nella distruzione o nella felicità.
Sono due personaggi indicibilmente diversi, e se anche seguiamo tutti i vani tentativi dell’uomo di tornare verso una libertà non meno effimera di quella che ha nel pozzo, è la stoica e sincera felicità di lei la vera calamita che ci attrae. Tutte le vicissitudini che li legano, li abbrutiscono, li umiliano e quasi li annientano insieme, scompaiono dinanzi ai suoi sorrisi, sinceri, grati e paradossali. Parteggiamo per lui, ma siamo rapiti in estasi di fronte alla figura e alla storia di lei.
Gli attori sono artefici di interpretazioni sentite, mai eccessive o sopra le righe, il loro naturalismo accentua l’assurdità della situazione che vivono e le emozioni che esplodono o nascono in essa.
L’Eros che vive tra le dune
La regia punteggia abilmente l’assurdo della storia. In molte scene è provocatoria e allusiva, inquadrando fiumi e cascate di sabbia, accrescendo un senso di disagio allucinatorio nello spettatore. È del resto capace di fissare l’eros che trasuda dal film con uno stile partecipativo, che accarezza la sensualità delle scene di passione, sottolineando quest’ultima con movimenti lenti e caldi; è tutt’altro che una regia voyeuristica e sterile, testimone fine a sé stessa di un piacere esterno.
La pelle escoriata e maculata di granelli, il sudore, i capelli, le bocche mugolanti e gli occhi chiusi nel buio o aperti e mistici: la fotografia è capace, attraverso il bianco e il nero, di restituire pienamente la follia delle giornate assolate e la fatica delle notti di lavoro al fuoco delle torce.
Memorabile è però anche lo stridente contrappunto musicale, fatto di note secche e vibranti, che irridono lo spettatore e lo catapultano in una dimensione onirica; le note rispecchiano il mondo illogico che piano piano si apre sullo schermo. Il minimalismo della storia vive di questi virtuosismi artistici che collaborano insieme per creare un’estetica trascendente, capace di legare ogni scena con un filo di grottesco e stridente erotismo.
In breve
Questo capolavoro giace oggi sotto le sabbie del tempo, non alterato, non invecchiato, ma splendente come il mito a cui viene spesso accostato; è ancora oggi capace di provocare emozioni forti e riflessioni profonde, perché la sua visione segna lo spettatore per tutta la vita. È un film da vedere a qualunque costo.
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