La caduta degli dei (1969), Luchino Visconti
La caduta degli dei (1969), Luchino Visconti

Ricorrono oggi, 29 maggio 2024, gli 80 anni dalla nascita di Helmut Berger, meteora fiammante del cinema italiano, scoperto e portato al successo dal regista Luchino Visconti alla fine degli anni ’60. Nonostante non sia il primo film a cui prese parte, La caduta degli dei (1969), che festeggia 55 anni questo 16 ottobre, è il film che lo consegnò alle luci della ribalta.

Opera epica dal respiro storico e simbolico, dotata di eccelso fascino estetico che dipinge un affresco crudo e meraviglioso sull’ascesa orrorifica del Terzo Reich.

La nibelungica caduta della ragione umana

27 febbraio 1933. L’anziano patriarca Joachim Von Essenbeck (Albrecht Schoenhals), proprietario delle omonime acciaierie, nella notte del suo compleanno annuncia alla sua famiglia riunita che ha scelto di avvicinarsi politicamente al regime nazionalsocialista che è appena andato al potere.

Quella notte viene assassinato dalla nuora Sophie (Ingrid Thulin), vedova del figlio ucciso in guerra, e dal suo amante Friedrich Bruckmann (Dirk Bogarde), dirigente delle acciaierie Von Essenbeck.

Tuttavia il governo e la stessa famiglia Von Essenbeck sono divisi tra le SA, di cui fa parte Konstantin (Reinhard Kolldehoff), nipote di Joachim, e le SS, cui appartiene il capitano Aschenbach (Helmut Griem). Lo scontro tra questi due rami militari del regime trascina in un’abissale e sanguinosa spirale decadente tutti i membri del nucleo familiare e le loro vite; tale spirale simboleggia la precaria Germania di Weimar.

Sarà il figlio depravato e degenerato di Sophie, Martin Von Essenbeck (Helmut Berger), luciferina creatura e crogiolo di mille vizi sessuali, ad emergere sulle ceneri di questi scontri, forte del suo odio e dell’aver consegnato la propria anima morale, politica ed etica al regime nazista. Suo è il trionfo finale, e di riflesso quello delle SS di Aschenbach che ha plagiato la gioventù borghese, simboleggiata da Martin, e quella intellettuale, rappresentata nel film da Günther (Renaud Verley), figlio di Konstantin.

Spariscono infine le ultime vestigia sociali di Weimar, i cui soldi e mezzi hanno garantito e supportato l’ascesa del nazismo, e si fa strada un nuovo tipo di “homo”: giovane, fanatico, perverso e mortifero. Martin appartiene alla generazione degli Heydrich, degli Höß, e degli Heichmann, i grigi burocrati della seconda guerra mondiale e della soluzione finale.

Ne La caduta degli dei, Luchino Visconti torna ai grandi temi della sua più alta stagione filmica; la dissoluzione dell’entità familiare travolta dall’invidia degli dei notturni

Ludwig, a cura di Giorgio Ferrara, Bologna, Cappelli Editore, 1973

La fiera delle meraviglie

Raramente si è visto un cast così raffinato e multinazionale, bello in senso estetico e di notevole spessore artistico. Il fior fiore d’Europa si è messo al servizio del disegno viscontiano che ha composto questo mirabile e atroce affresco della decadenza umana, storica e morale.

Il cast unisce l’eleganza britannica di Dirk Bogarde e la bellezza delicata di Charlotte Rampling (Elisabeth), ai volti affilati e seducenti di Helmut Griem e Helmut Berger, i demoni nazisti dall’aspetto angelico. Degni di nota sono l’italiano Umberto Orsini (Herbert), attore che si misura egregiamente con un cast di promesse ed eccellenze, e il magnetico francese Renaud Verley, destinato ad una breve ma indimenticabile carriera che ha avuto il suo apice alla fine degli anni ’60. Nuovi interpreti e talenti comprovati si uniscono in questo quadro familiare così malvagio e affascinante.

Su tutti però colei che incarna la seduzione più lussuriosa e manipolatrice con un talento affinato, e indurito soprattutto dalle sue precedenti prove attoriali con Ingmar Bergman, è la meravigliosa Ingrid Thulin. Persino nelle scene finali, quando è ridotta (non anticipo per causa di cosa) ad essere l’involucro della fiera e potente Lady Macbeth che ha complottato minuziosamente la scalata al potere del suo amante, umbra magni nominis, tramite la sua recitazione sublime si agita con una ferocia meticolosa che trapela dagli sguardi e dai sorrisi, moritura impazzita che con la sua sorte finale dà l’epilogo alla storia dei Von Essenbeck.

Tramite loro emerge ancora una volta la “predilezione di Visconti per i drammi della sconfitta e la sua visione della storia come un nibelungico succedersi di cicli di potere“. (Lino Miccichè, Luchino Visconti: un profilo critico, Venezia, Marsilio, 2002).

Il disegno di una Germania perduta

La trilogia tedesca di Visconti rilegge all’indietro la drammatica storia della Germania, dall’avvento del nazismo ai furiosi deliri di grandezza del tardo romanticismo assolutista, ossimoro ben incarnato dalla figura del re Ludwig II di Baviera.

Con questo primo capitolo attraversiamo lo snodo finale del regime di Weimar e il pieno consolidarsi a livello politico e morale del nazismo in Germania mediante i sordidi intrighi che coinvolgono la fittizia famiglia Von Essenbeck, colosso dell’acciaio; come ricordava il regista, il film finisce dove comincia il nazismo.

Tre sono i modelli coinvolti in questo grandioso affresco familiare: I Buddenbrook, poiché la colossale opera di Mann ha messo radici profondissime nel cinema di Visconti, trovando sempre esiti più che magnifici; la famiglia Krupp, il cui acciaio impiegato per scopi bellici ha reso la Germania una potenza mondiale protagonista di due sanguinosi conflitti mondiali; la famiglia di Luchino Visconti stesso, che visse proprio quel primo novecento che da regista cercò di recuperare in molti romanzi e di ricostruire in molti film.

La grandiosa apertura prandiale riprende direttamente la scena iniziale del romanzo di Mann.

Non potevo aprire nessuno spiraglio di speranza in quella famiglia di mostri; era come dire, speriamo che questi mostri ritornino a vivere.

La caduta degli dei, a cura di Stefano Roncoroni, Bologna, Cappelli Editore, 1969

I temi, gli amori, i furori

Con questo film ci spostiamo dagli influssi melodrammatici di Senso (1954) e de Il Gattopardo (1963) alla piena fluvialità tardormantica, sospesi tra Wagner e Mahler. Questo “spostamento musicale” accompagnerà l’opera cinematografica di Visconti fino alla fine, in sintonia con il ritratto della storia tedesca in declino.

All’influenza sopracitata di Mann si aggiunge poi la struttura tragica del Macbeth, di cui si recupera anche la triade tematica ambizione-assassinio-paura, mescolandola sapientemente con la componente storica.

Visconti affronta la Storia in maniera precisa e accurata, ma non la rende veramente protagonista, preferendo indagare il male nel suo alveo più ribollente: l’umanità stessa. Le psicologie contorte, intrecciate tra loro e votate a distruggersi reciprocamente sono i leitmotivs che guidano la caduta familiare, la colossale distruzione di una famiglia che rappresenta il potere, specchio borghese della società tedesca.

L’ambientazione nazista della storia più che apparire la determinante del clima di pantoclastia famigliare, ne diventa la proiezione se non lo sfondo scenografico: più che proporre, insomma, la storicizzazione della psicologia, propone la psicologizzazione della storia.

Lino Miccichè, Visconti, un profilo critico, Venezia, Marsilio, 2002

Il riferimento a quel momento storico è più un fattore estrinseco che intrinseco; al posto della Germania nazista potrebbe esserci un altro luogo storico di abiezione, ma certo Visconti, che il trauma del nazismo lo ha vissuto in diretta, non ha trovato un luogo più depravato moralmente della Germania del Terzo Reich.

Questo comporta una dimensione simbolica che trae la sua maggior forza dall’ambiguità storica di cui il film è fautore: così acuto nel descrivere l’ascesa delle SS e la caduta delle SA e delle ultime strutture sociali di Weimar, e così intimo nel descrivere la rovina velenosa e la degenerazione mortifera dei Von Essenbeck.

La caduta degli dei è insieme tragedia dell’ambizione (il movente), dell’assassinio (il mezzo) e della paura (il clima).

Morte a Venezia, a cura di Lino Miccichè, Bologna, Cappelli Editore, 1971

Perversione del male assoluto

I costumi sessuali sotto la repubblica di Weimar erano abbastanza liberi. Quelli sono gli anni della Berlino di Brecht, di Isherwood e Döblin, che poi verrà descritta con maestria da Bob Fosse in Cabaret (1972) e da Rainer Werner Fassbinder in Berlin Alexanderplatz (1980), anni di furori artistici e di molte libertà che verranno brutalmente schiacciati sotto il governo hitleriano.

Tuttavia nel cinema italiano, fin da Roma, città aperta (1945) di Rossellini, un certo libertinismo sessuale e morale rasente alla perversione è stato spesso usato come elemento caratterizzante per i membri del Terzo Reich. Il nazista, essere perverso a livello storico, diventa anche perverso a livello psicologico e sessuale, unendo la scabrosità storica ad una simbolica, più impattante a livello visivo e morale.

Molti film di dubbio gusto hanno avuto per tema dei nazisti perversi e corrotti. Opere che viaggiavano sul binario dell’orrore e dell’erotico/pornografico e che sono stati poi raggruppati sotto il genere di nazisploitation.

Questa fusione di perversioni storico-morali e sessuali ha però avuto degli echi anche nel cinema d’autore, in cult più riusciti come Salon Kitty (1975) di Tinto Brass e Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani (dove tornano alcuni attori di questo film) o in veri e propri capolavori come appunto La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti.

A cavallo tra gli anni ’60 e ’70, in quelli che oggi possono essere visti come gli anni più politici del cinema italiano, anche i fascisti cinematografici sono stati rappresentati come depositari di questa profonda depravazione sessuale: basti pensare a Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini e a Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci.

L’attore più bello della sua epoca

Oggi il nome di Helmut Berger è affare di cronache, encomi o necrologi (come è accaduto l’anno scorso), ma c’è stato un periodo, orribilmente breve, in cui la sua eleganza fisica e carismatica unita a una rara finezza attoriale lo hanno portato ad essere l’attore più famoso del mondo.

È oltremodo facile dire che è stato il compagno della vita di Luchino Visconti e che dopo la prematura morte del regista ha buttato all’aria la sua carriera, vittima di una profonda depressione. Immaginiamo un aspirante attore dal volto angelico, bello secondo ogni canone artistico e culturale, sperduto nella Roma della dolce vita che incontra su un set un regista al lavoro che in quel momento è reduce dal successo mondiale del suo ultimo film, Il Gattopardo. Il regista più famoso del mondo incontra questo ventenne e lo prende sotto la sua ala.

Con la fine degli anni ’60 iniziano i primi ruoli da comparsa e poi da protagonista. Nel 1969 viene lanciato nell’Olimpo del cinema mondiale con il suo ruolo ne La caduta degli dei (1969).

Per la prima metà degli anni ’70 è un nome di grande richiamo: partecipa ad altri due film di Visconti, Ludwig (1973) e Gruppo di famiglia in un interno (1974), prende parte a Il giardino dei Finzi-Contini (1970) di Vittorio De Sica, e lavora in Italia e all’estero.

Una meteora nel cielo stellato

Poi si ritrova vedovo a 32 anni. Visconti, già colpito da una trombosi nel ’73, debilitato, costretto su una sedia a rotelle, muore nel ’76 dopo aver lottato fino all’ultimo per restare nel mondo del cinema come artista.

Lentamente anche l’attore si consuma. I film calano vistosamente di qualità e poi anche di quantità; poco importa che abbia preso parte a oltre 45 anni a Il padrino – parte III (1990) di Francis Ford Coppola.

Helmut Berger grazie al sodalizio lavorativo e privato con Visconti è stato portato al successo, ma non per meriti non suoi. Visconti, regista rivoluzionario del teatro, della lirica e del cinema, era fedele alle accademie drammatiche, contrario ai non-professionisti e a chi non faceva l’attore di mestiere.

Deve aver visto qualcosa di acerbo ma potenzialmente fecondo in Berger, e lo ha aiutato a maturare, regalandogli e regalandoci un periodo d’oro in cui lo schermo è stato il suo trono.

Ma come per Edward mani di forbice, l’artista è morto prima di completarlo. E a noi resta oggi solo il ricordo delle sue fulgide apparizioni nel cinema mondiale di quel quinquennio; i meravigliosi ruoli scritti per lui da Visconti stesso, e un senso di amara nostalgia che si abbevera ed estingue con il cinema stesso.

L’opera e il volto – In breve

Il film preferito di Rainer Werner Fassbinder, che lo giudicava “forse il film più grande, il film che penso significhi tanto per la storia del cinema quanto Shakespeare per la storia del teatro”.

Oggi solo sullo schermo ci resta la grandezza vera, incarnata da quel volto celestiale adornato con la divisa del male assoluto che, vittorioso e vizioso, si erge sui cadaveri dei suoi familiari.

E il ricordo di un nobile regista, che ha visto la sua classe sociale sparire via col vento, nonché della sua arte demiurgica che ha lanciato più di un grande attore nella storia del cinema, l’ultimo dei quali fu una meteora austriaca morta il 18 maggio scorso: Helmut Berger.

Sit vobis, Luchino and Helmut, terra levis

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Francesco Gianfelici
Classe 1999, e perennemente alla ricerca di storie. Mi muovo dalla musica al cinema, dal fumetto alla pittura, dalla letteratura al teatro. Nessun pregiudizio, nessun genere; le cose o piacciono o non piacciono, ma l’importante è farle. Da che sognavo di fare il regista sono finito invischiato in Lettere Moderne. Appartengo alla stirpe di quelli che scrivono sui taccuini, di quelli che si riempiono di idee in ogni momento e non vedono l’ora di scriverle, di quelli che sono ricettivi ad ogni nome che non conoscono e studiano, cercano, e non smettono di sognare.