Judy Garland in The Wizard of Oz (1939)
Judy Garland in The Wizard of Oz (1939)

Il 10 giugno 1922 nasceva nel Minnesota Judy Garland (pseudonimo di Frances Ethel Gumm): basta il suo nome per evocare scarpette rosse e arcobaleni tutti da cantare.

Ma la città di smeraldo non è il luogo da sogno che sembra; diventa per l’attrice un vero e proprio incubo, e come Dorothy nel film, passa la sua vita sognando di tornare a casa, una casa che fosse fuori dai set, lontana da leoni, uomini di latta e spaventapasseri, ma con persone vere che potessero amarla per ciò che era.

Streghe e majors cinematografiche

La sua carriera inizia prestissimo, quando è ancora una bambina Frances inizia ad esibirsi con le sue sorelle maggiori, sale sul suo primo palco all’età di due anni. Le tre erano conosciute come The Gumm Sisters. Il suo nome d’arte però, Judy Garland, è quello con cui firmerà il contratto con la Metro-Goldwyn-Mayer, in accordo con sua madre (che già le somministrava stimolanti per non subire la stanchezza delle esibizioni) dopo essere stata scoperta durante un’esibizione del 1934 a Chicago.

Il Mago di Oz di Victor Fleming arriva nel 1939, è un’opera importantissima per l’immaginario di tutti i registi che lo hanno considerato una grande ispirazione (basti pensare a David Lynch e alla sua magnifica ossessione raccontata nel documentario Lynch/Oz, di Alexandre O. Philippe), nonostante il suo scarso successo iniziale e le leggende inquietanti che lo avvolgono.

Il film decreta per l’attrice e cantante un punto di svolta, sia in accezione positiva, e quindi per il suo successo mondiale, ma anche negativa, segnandola a vita con la dipendenza da farmaci e una serie di problematiche che l’avrebbero perseguitata per tutta la vita, portandola a morire a soli 47 anni per overdose da barbiturici.

Colpevole di tale triste destino, raccontato sapientemente nel documentario Judy, di Rupert Goold (2019), non è la Strega dell’Ovest bensì la costrittiva manipolazione del suo aspetto (e soprattutto del suo peso) da parte della major: in particolare del produttore della MGM Louis B. Mayer. Sebbene Judy avesse solo 17 anni nel film doveva sembrare molto più giovane, per questo la scelta del vestito e dell’acconciatura ma soprattutto gli obblighi di una dieta disumana che si racconta fosse basata su assunzione di caffè, sigarette e zuppa di pollo, in aggiunta a parecchio sport.

Non sappiamo se questa fosse veramente la dieta dell’adolescente nei panni di Dorothy, ma sappiamo che l’intera lavorazione del film fu un tour de force senza precedenti: vista con poca benevolenza dal resto del cast, per colpa della sua brillante e veloce ascesa, Judy soffrì molto, e l’insicurezza nei confronti del suo aspetto fisico si amplificò, portandola a diventare totalmente dipendente da coadiuvanti medici per dimagrire, rendendola qualche anno dopo una trentenne tossicodipendente depressa nonché vittima di un’insonnia costante.

L’illusione di Oz

Dietro ai colori, alla magia e alla fantasia del mondo di Oz, si nasconde qualcosa di oscuro, l’altra faccia della golden age di Hollywood; a pagarne il prezzo è proprio Judy Garland, vittima di un sistema crudele e trattata come un’immagine da poter stravolgere, piegare o spezzare a proprio piacimento. Andando a scandagliare la breve vita dell’attrice che Il Mago di Oz inizia ad assumere tratti particolarmente cupi e perturbanti, abbandonando qualsiasi accenno di positività.

Nessuna strega fa più paura della negazione della propria libertà. Nulla fa più paura del potere di un produttore esercitato su una fragile protagonista, altro che scimmie con le ali.

Illustrazione di Cristiano Baricelli.

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L’illustrazione originale è di Cristiano Baricelli, che ringraziamo. Qui il suo sito ufficiale.

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.