Talking cure, Leo Canali
Talking cure, Leo Canali

Leo Canali, regista e sceneggiatore di Forlì, firma Talking Cure, il cortometraggio che vede protagonista l’interprete Aura Ghezzi nel ruolo di Luna, una ragazza sorda che in un momento psicologicamente ed emotivamente complesso legato alla fine di una relazione sentimentale, si trova a fare da interprete per una donna il cui nipote è scomparso in circostanze poco chiare. Con i riflettori puntati sull’importanza del linguaggio, e delle sue forme, il regista riporta con tecnica e ricerca un disagio tangibile, e la rappresentazione della dolorosa virtualità dei rapporti, condizionante per chi ne è vittima.

Talking Cure è stato proiettato lo scorso 16 luglio alla libreria Zalib di Roma all’interno della rassegna Ti presento i miei, Corti freschi e amori cult, e la settimana seguente al FMK, il festival a Pordenone che Cinemazero dedica al cortometraggio.

Leo Canali ci racconta, insieme ad Aura Ghezzi, da cosa nasce Talking Cure e come si evolve dal punto di vista registico e attoriale la prima intuizione sul dolore di Luna.

L’intervista

Leo, in Talking Cure parli di virtualità dei rapporti, di dipendenza affettiva: volevi raccontare l’ossessività dei rapporti o tramite la cura del parlare intendevi andare oltre?

Leo Canali: Devo partire da una premessa, che spiega come è nato il cortometraggio: Talking Cure è codipendente da un altro progetto che ho in corso. Stavo scrivendo il mio primo film, e durante il trattamento con tutte le fasi preliminari alla sceneggiatura, a un certo punto scopro che un aspetto chiave del protagonista del mio film è la rottura di una relazione sentimentale completamente non risolta con la sua ex, che per lui è stata una storia importantissima, fondamentale.

Lì immagino la ex del protagonista come una ragazza sorda, questo perché nel film il protagonista ha un rapporto molto conflittuale con il suo corpo, che usa soprattutto per autolesionarsi, e volevo dargli come possibilità di liberazione il fatto di usare il corpo come un linguaggio, per poter parlare e confidare anche delle tenerezze, un’emotività. Ho pensato alla LIS (la Lingua dei Segni Italiana, N.D.R.), mi sono detto, cavolo se lui avesse la ex sorda e si parlassero in LIS, sarebbe bella come scena.

Inizio a definire la silhouette del personaggio, di questa ex, e mi rendo conto di quanto sia bello, e nel film sarebbe arrivato solo nella parte finale. Quindi decido di scriverle una storia a parte, che mi avrebbe permesso di portare in giro un corto con una vita indipendente ma allo stesso tempo utile per parlare del progetto del film.

Inizio a scrivere e immediatamente la prospettiva della relazione diventa l’opposto, quello di lei; il gioco di rimbalzo tra i punti di vista c’è anche nel film, in cui a un certo punto si capisce che forse parte della colpa di questa rottura ce l’ha più lui che lei.

Ho capito che mi interessava parlare di questo sottrarsi di lui: di una storia che si è rotta e di una specie di momento di ghosting per cui lui scompare, non le risponde più, a una ragazza sorda che è costretta a una situazione di interpretariato, a quel punto per forza il discorso principale, il fuoco tematico del corto, si è spostato sulla comunicazione, e credo sia diventato un corto sul comunicare, sul fatto che ci sono modalità del comunicare che costruiscono un discorso fatto di significati verbali o di messaggi verbali che ci mandiamo, che però non colgono un punto di emotività che invece è permesso dall’empatia, sostanzialmente.

Anche la struttura di Talking Cure a livello di forma cinematografica serve per distogliere sempre di più l’attenzione da quello che le persone dicono, per concentrarsi sui volti, che poi è quello che permette di fare il cinema nel momento in cui avvicino la camera a un soggetto e faccio un primo piano. Prendi per esempio il personaggio dell’avvocato/poliziotto, non si capisce bene che cosa faccia e fornisce un profluvio di dettagli su questa vicenda pur non arrivando a nulla, ciò che è importante è l’incontro tra Luna e Rita Gamberi, che è l’attrice che interpreta Sara: quell’incontro lì le permette poi di rileggere parte del proprio vissuto personale, in un modo che magari non ci è dato nemmeno conoscere, questo perché io ti mostro che lei risolve qualcosa, sicuramente, però poi la dinamica di questa risoluzione meriterebbe un film a sé.

Talking Cure è infatti un film che sottrae invece di aggiungere: sia nelle immagini che nella tecnica, per questo risulta così efficace.

LC: Questo dipende dalla natura produttiva del progetto. Nel momento in cui ho deciso di realizzare il corto, nato così impulsivamente da un progetto di lungo, mi sono convinto di girarlo solo se ce l’avessi fatta con le mie sole forze, senza dover incappare in bandi, in percorsi di produzione complessi o istituzionali.

Quindi è totalmente autoprodotto.

LC: Ho la fortuna, come regista indipendente, una fortuna che non hanno in tanti, di avere a disposizione una squadra di professionisti che lavora con me nell’arco dell’anno in pubblicità, e che alla proposta di dedicarsi a un progetto di cortometraggio più personale, non un lavoro per il cliente pagante di turno, accetta di starci. Avevamo una squadra di professionisti all’opera, e penso che si veda nella fattura finale del corto.

A proposito della sottrazione, del linguaggio cinematografico, penso che si rifletta anche nell’unica ambientazione che abbiamo usato, una casa mezza vuota. Questo dipende anche dal fatto che non volevo diventasse una cosa troppo grossa produttivamente, mi piaceva che rimanesse un prodotto molto indipendente.

Aura, a livello interpretativo, come hai vissuto questa protagonista che vive solo di primi piani, di silenzi?

Aura Ghezzi: Quando prepari un personaggio in realtà non lo sai poi come verrai ripreso, quindi uno deve essere pronto un po’ a tutto. La preparazione è stata lunga, nel senso che ho fatto anche un lavoro di training sulla LIS.

LC: Mi inserisco, è un mestiere che vive anche di queste contraddizioni, ti ho appena detto che produttivamente volevo impostare una cosa veloce, con tre giorni di riprese in casa, però dal punto di vista attoriale è diverso. Ho scritto il corto 80 per cento in LIS, senza parlarla, senza conoscerla, e quindi entrare mondo dei sordi e della comunità sorda ha preso un anno buono di produzione prima di arrivare alle riprese.

AG: Poi ovviamente Leo non voleva fare una cosa approssimativa, senza informarsi su cosa fosse. Durante la preparazione è entrato in contatto sia con la comunità sorda di Forlì che di Bologna, abbiamo fatto insieme degli incontri con un’interprete che mi indicava anche le espressioni che vanno fatte. Sotto questo aspetto è stato un grande lavoro di studio, ho letto tantissime cose sul mondo della sordità ed è stato molto bello e interessante. Poi prepararsi a tutto il lato emotivo del corto chiaramente ha fatto parte di un altro tipo di lavoro.

Ti riferisci al pianto lungo e straziante dell’inizio?

AG: Esattamente. Ci sono quelle cose che sì, sai fare, sai piangere, però è anche vero che siamo corpi in carne e ossa, ti dici sì piango una volta, piango due volte, e magari ad un certo punto il tuo corpo non piange più. Al cinema usano sempre aiuti per piangere, quindi dico a Leo di potercela fare, ma di volere anche un salvagente in caso contrario. Lui mi ha detto: non voglio salvagenti, secondo me ce la puoi fare. Questo a me ha dato fiducia, effettivamente pensava che ce la potessi fare.

LC: è molto intenso vedere le sette takes che abbiamo fatto di quel pianto, una di fila all’altra. Si capisce la variazione dell’emozione, e sono veramente molto intense. Tra l’altro anche lì c’è stata in parte una scelta al montaggio, inizialmente non pensavo di tenerlo così lungo, poi l’abbiamo messo in timeline con Matteo Santi, il montatore del corto, tagliandolo sui 45 secondi. Però guardando una delle prime versioni che avevamo fatto, in cui era stato tenuto molto lungo, mi aveva fatto una certa impressione.

Sarebbe stata una scelta autoriale, ma anche una cosa suicidiaria su 15 minuti di cortometraggio, dissi a Matteo di volerlo tenere così. Trovammo l’accordo di vedere se con il pianto da 45 secondi il corto arrivasse a poco più di 15 minuti, a quel punto lo avremmo lasciato così, ma alla fine della prima messa in fila il corto durava 16 minuti e 13, ho detto, caro Matteo il pianto ritorna di due minuti e mezzo, perché a questo punto li abbiamo già superati, il corto è sopra ai 15 e a questo punto il pianto lo mettiamo tutto. È diventata una scelta stilistica che però per me paga nel momento in cui lo vedi sullo schermo.

Si capisce che Luna sia sorda solo dopo tutto quel pianto.

LC: Una cosa che ha fatto molto piacere alla comunità sorda, in cui il termine sordo è quello più corretto. Ai sordi non piace essere chiamati non udenti, perché è la sottolineatura di un handicap, mentre l’aggettivo sordo fa riferimento ad un’intera comunità. Abbiamo imparato molto in questo senso. Ad esempio la tagline del corto che mando in giro per i festival inizia con: Luna, una ragazza sorda, in sceneggiatura avevo scritto una ragazza sordomuta, e immediatamente la signora che avevamo contattato durante la fase di training mi disse che non potevo scriverlo, perché non esistono persone sordomute.

AG: Abbiamo imparato tantissime cose da questo punto di vista, cose che non si sanno per ignoranza, non per altro.

LC: Nel corto non è sottolineata la disabilità della protagonista, volutamente, lo scopri col film ma puoi anche non scoprirlo. Mi sono rivolto alla comunità sorda chiedendo se quello che avevo scritto in sceneggiatura fosse possibile, plausibile, in particolare riferendomi al personaggio di Luna. In molti mi hanno detto che Talking Cure fosse molto bello soprattutto perché è un corto con i sordi e non un corto sui sordi. Sto raccontando di una ragazza sorda che vive i drammi di una vita comune come qualsiasi altra persona, la condizione della protagonista ha più a che fare più con la messa in scena che con la storia.

Ma infatti sta anche nella tua interpretazione Aura. Quando parli con la poliziotta, si intuisce, ma non è un elemento fondamentale.

AG: Questa è stata un po’ una richiesta anche di Leo. Ci sono persone sorde che parlano molto bene, hanno qualche difetto, ma come chiunque altro. Più che altro non hanno un accento, quello ti colpisce.

A proposito dell’aspetto sonoro del film, il fischio che si sente ad un certo punto ci fa immedesimare potentemente in Luna, su quello come hai lavorato Leo?

LC: L’obiettivo era creare una condizione sonora alternativa. Lo avevo scritto anche nella prima pagina della sceneggiatura, che nel corto avremmo vissuto una condizione sonora totalmente alterata, poi in fase di montaggio ci siamo resi conto che sarebbe diventato invasivo spalmare quel fischio su tutto il corto, quindi si sente solo in alcuni momenti nei quali è come se entrassi nel punto di vista della protagonista. Questa soluzione l’ho poi elaborata con quello che è un mio collaboratore di lunga data, Andrea Lepri, un musicista e un alchimista del suono, che ha realizzato il sound design di tutti i miei progetti di fiction.

In occasione della rassegna Ti presento i miei, il cult che avete scelto insieme è Il sesto senso, come mai?

LC: M. Night Shyamalan è un regista che ci piace molto, e ci piace dichiarare l’affetto nei suoi confronti. Per me è stato un autore fondamentale, di crescita, uno dei primi grandi amori cinematografici verso un regista del presente, di cui vedi i film che escono al cinema nel momento in cui maturi la passione cinefila, e capisci che vuoi diventare qualcuno che intende vivere di questo. Riconosco una risonanza con Shyamalan, è un regista che mi ha insegnato a guardare le cose in un certo modo.

E Il sesto senso perché è particolarmente interessante, secondo me, rivederlo oggi. È un film con una fama ingombrante, è passato alla storia come uno dei cliffhanger movie più importanti di sempre, ma ci siamo dimenticati cosa fosse davvero questo film, un qualcosa di completamente alieno al panorama del cinema hollywoodiano di genere della fine degli anni ’90, non c’era niente di simile.

Possiede una verve stilistica molto più europea che americana, basti pensare che in quel periodo negli Stati Uniti un film di genere che andava forte era Scream, invece Shyamalan fa questo horror molto autoriale che diventa però un campione d’incassi. Se ci pensi è una cosa molto contemporanea, adesso ci facciamo caso che l’horror di stampo più autoriale può comunque diventare un campione d’incassi. Credo che abbia ridefinito molto il rapporto col genere con Il sesto senso, che è geniale e ha tante di quelle cose belle dentro che non saprei da dove iniziare, a partire dalla regia. Poi è un film cattivissimo, pensa alla scena del funerale in cui si scopre che la mamma avvelenava la bambina, ma chi l’aveva mai fatto da lì a 15 anni prima?

Shyamalan ha sempre dichiarato che il suo riferimento è Steven Spielberg, che, almeno io, ho imparato a rileggere in una chiave più cupa dopo The Fabelmans, che è uno dei ritratti dell’artista da giovane più dissacranti e disperati sul fare cinema, girato dal regista tacciato di essere ottimista, positivista. Ma riguardando tutto il suo cinema si legge questa ombra scura che è sempre stata presente. Non è un caso che sia un grande cineasta horror, senza mai averlo fatto effettivamente, le scene di tensione dei suoi film sono scene memorabili. Tenendo conto di questo ripenso a Shyamalan e dico è un po’ una deflagrazione di quella cupezza.

Ricordiamoci che Shyamalan faceva la postmodernità sui supereroi prima del MCU, con eroi inventati da sé, una grande logica autoriale che lo rende un regista di riferimento per me, infatti e attendo con ansia Trap! (al cinema dal 7 agosto 2024, N.D.R.)

Continua a seguire FRAMED anche su Instagram Telegram.

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.