Qualche mese fa vi abbiamo parlato di Disco Boy, lungometraggio firmato da Giacomo Abbruzzese al suo esordio cinematografico, nonché vincitore dell’Orso d’Argento per il miglior contributo artistico (fotografia) alla Berlinale 2023.
Un film dalla bellezza ancestrale, in cui seguiamo le vicende di tre personaggi le cui vite sono destinate a intrecciarsi in maniera ineluttabile: Aleksei, clandestino bielorusso appena arruolatosi nella Legione Straniera, Jomo, giovane miliziano del MEND (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger), e sua sorella Udoka, che sogna di fuggire per sempre dalla sua terra.
Disco Boy ha avuto una genesi travagliata: 10 anni per progettarlo e appena 32 giorni per girarlo. In questo caso, la perseveranza ha ripagato abbondantemente il regista pugliese, che nel corso degli ultimi mesi ha presentato il film in una lunga tournée mondiale.
L’intervista a Giacomo Abbruzzese
Si pensava che Disco Boy fosse un progetto impossibile, tant’è che ci sono voluti dieci anni prima che vedesse finalmente la luce. Come mai? Quali sono stati gli ostacoli incontrati in fase di pre-produzione?
A parte il tempo necessario alle ricerche, alla scrittura e al cast di un film comunque complesso, il problema principale è stato il costo del film. Per un’opera prima, di solito il budget che si riesce a riunire è intorno a 1 milione. Disco Boy aveva bisogno di almeno il triplo. Ed è un film di cinema d’autore, con un cast che non portava finanziamenti, quindi era particolarmente difficile. Poi non ho voluto cedere rispetto a dei tentativi di normalizzare le sue singolarità. Per esempio non ho voluto mai rinunciare a raccontare la parte africana di Disco Boy, dove il film abbraccia un’altra prospettiva, abbandonando il personaggio principale per mezz’ora. Era una scelta che sicuramente spaventava.
Per difendere il film e per cercare la giusta squadra capace di trovare i finanziamenti necessari, ho dovuto cambiare per ben due volte i produttori francesi. Poi alla fine è con dei produttori più giovani e motivati che sono riuscito a trovare il budget minimo necessario. Ma anche con 3.3 milioni non è stato semplice, non riuscivo a trovare in Francia un direttore di produzione con esperienza che accettasse il film, né un aiuto regista. Tutti dicevano che ci sarebbero voluti almeno 40 giorni di riprese, quindi un milione in più. Alla fine l’abbiamo fatto in 32 giorni, c’erano pochissimi margini d’errore, ma era l’unico modo. È stata una corsa contro il tempo!
Un ruolo molto importante lo ha avuto Hélène Louvart come direttrice della fotografia. Come è nata questa collaborazione e come è stato lavorare con lei?
L’avevo incontrata agli inizi del progetto, circa dieci anni fa, quando ero in residenza alla Cinéfondation del Festival di Cannes. Ha amato molto il progetto, lo ha seguito a distanza per anni e poi quando le condizioni si sono realizzate, ha accettato di fare la fotografia del film.
È stata credo la collaborazione artistica più bella della mia vita. Helene non è una direttrice della fotografia ossessionata dalla riconoscibilità della firma. Cerca di immergersi nel film, capire quello che vuoi e aiutarti a realizzarlo al meglio con la sua grande esperienza. Non c’erano mai problemi di ego, io potevo dirle se non ero convinto di un’ombra, di una disposizione delle luci – in generale sono un regista che segue molto il quadro – e lei poteva dirmi, sempre con discrezione, se non era convinta di un dialogo o di un’interpretazione. Parlavamo sempre di tutti gli aspetti del film, dai costumi alla scenografia, ed era importante in un set dove non conoscevo nessuno, dove non avevo potuto portare nessuno della mia equipe italiana, avere una collaboratrice artistica così stretta e un’intesa così bella e rara.
Disco Boy è un film che mostra la guerra da entrambe le prospettive di chi la vive e arriva in un momento storico molto delicato. Sul ruolo dell’arte nella politica si è detto e scritto tanto. Qual è la “responsabilità” di un artista, e in particolare di un regista, in tal senso?
La responsabilità è magari quella di proporre uno sguardo più complesso e allo stesso tempo con più distanza rispetto a quelli che sono magari i tempi del giornalismo o dell’audiovisivo in generale sulle questioni politiche. Offrire anche prospettive più scomode, meno accomodanti, che non sono lì per semplicemente per confortarci sulle nostre opinioni, sul nostro vissuto, ma al contrario per minarlo. E poi una delle grandi possibilità del cinema è proprio quella di farci immergere, persino farci identificare per un istante con personaggi e storie anche molto lontani dalla nostra vita. Ed è importante, in un momento dove forse manca sempre più l’empatia.
In Disco Boy si parlano ben cinque idiomi diversi e gli attori hanno dovuto misurarsi nell’impresa di fare propria una lingua che non lo è. Qual è stata la riflessione alla base di questa scelta artistica così importante?
Da un lato era la necessità della storia: i soldati della Legione straniera vengono da tutto il mondo, portano con sé il loro bagaglio di lingue e di accenti. E poi c’era la necessaria alterità dell’Africa, in questo caso il Delta del Niger, dove i personaggi parlano in inglese Nigeriano mescolato a Igbo.
Non volevo fare come gli americani, che per esempio non si fanno alcun problema ancora oggi a fare una serie come Chernobyl totalmente in inglese, o girare film in Italia dove attori americani interpretano in inglese personaggi italiani. Capisco che spesso sono esigenze di mercato, ma questo annulla ogni differenza, ogni idea appunto di alterità.
La lingua è fondamentale. Non mi interessa tanto il passaporto di un attore, ma levare la singolarità linguistica al personaggio è un’astrazione troppo grande a mio avviso. E rischia di essere una postura coloniale. Immaginate voi un film ambientato negli Stati Uniti con personaggi americani girato però in Igbo con attori nigeriani? O in russo da attori russi? Certo che no.
Nel caso di Disco Boy, una volta scelto un attore tedesco (Rogowski) per interpretare un bielorusso, tutte le scelte attoriali sono state fatte con la stessa libertà. Cercavo più l’attore che avesse l’anima del personaggio, piuttosto che lo stesso passaporto. Poi l’approccio era quello di imparare a memoria, foneticamente, con l’aiuto di diversi coach, i rispettivi dialoghi nella lingua del personaggio. A volte si sente un leggero accento, ma persino gli spettatori bielorussi hanno fatto i complimenti a Rogowski, a Wieckiewicz e a Balicki (i tre attori in Disco Boy che parlano bielorusso) per il loro lavoro sulla lingua. Disco Boy è un viaggio attraverso luoghi, personaggi ma anche idiomi diversi.
Nel corso del film Aleksei subisce una vera e propria metamorfosi. Assume l’identità di Jomo attraverso l’eterocromia degli occhi, attraverso la connessione con Udoka e attraverso la danza che sul finale sembra quasi impossessarsi del suo corpo. C’è qualcosa di molto mistico in questo legame: come è nata questa idea?
L’eterocromia degli occhi era qualcosa che mi permetteva di legare immediatamente Jomo e Udoka come fratello e sorella senza usare dei dialoghi e iscrivere subito la loro presenza, la loro relazione, in qualcosa di mistico. Mi permetteva poi di avere un elemento che fosse immediatamente visibile, relativo al corpo, nella trasmissione da Jomo ad Aleksei. In modo così da associare la danza finale alla possessione e non all’imitazione.
Poi a un livello più astratto e concettuale, l’eterocromia suggerisce l’idea di integrare in sé uno sguardo altro. Che è un po’ lo squarcio utopico sul quale si chiude il film, insieme alla danza col nemico. Il mondo è soltanto uno e dobbiamo in qualche modo imparare a condividerlo con l’altro, anche con chi è molto diverso da noi.
Qui potete leggere la recensione del film.
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