Filippo Timi in Dostoevskij, VISION DISTRIBUTION
Filippo Timi in Dostoevskij, VISION DISTRIBUTION

Protagonista di Dostoevskij, Filippo Timi nell’opera dei fratelli D’Innocenzo incarna con la sua interpretazione un senso intimo di difficoltà dello stare al mondo, fornendo una prova attoriale destabilizzante e compiuta, una tra le più intense della sua carriera.

Presentata in anteprima mondiale alla 74ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, Dostoevskij è la prima serie ideata, scritta e diretta dai fratelli D’Innocenzo. Girata interamente in pellicola, arriva oggi al cinema (fino al 17 luglio) divisa in due atti, ma proposta in contemporanea nella stessa settimana, per sperimentare una visione totale e consecutiva.

Esperimento che si innesta nello spirito più profondo dell’opera, che è esplicita, feroce, sovversivamente non mainstream e votata a un amore per il cinema che ne trascende i contorni e la forma, anche risultando in alcuni momenti (volutamente) respingente. Noir in sei puntate in cui l’elemento poliziesco non è che un pretesto per indagare il dolore dello stare al mondo senza addolcirne, neanche per un istante, la portata drammatica e irreversibile.

E dove la regia accarezza luoghi desolati fatti di polvere e ricordi, il protagonista, Filippo Timi nel ruolo del poliziotto Enzo Vitello, si trascina con il suo passato e accrescendo dentro sé l’ossessione per un killer con cui stabilisce un dialogo fatto di tristi assonanze.

Timi ci ha spiegato cosa significa mettere cura nel proprio lavoro, e come non dimenticherà questa esperienza.

L’intervista

Cosa ti ha colpito inizialmente del soggetto di Dostoevskij? Ti ha conquistato alla prima lettura?

Devi sapere che il soggetto all’inizio non l’ho letto, perché i fratelli (D’Innocenzo, N.D.R.) mandano il provino con le scene, deliberatamente senza dirti niente del ruolo. Il che per alcuni attori o per alcuni aspetti rappresenta una difficoltà in più, ma sotto un altro punto di vista è stimolante.

Ho domandato ai fratelli il motivo di questa scelta e loro mi hanno risposto che è per dare ancora più libertà. Mi hanno detto: “Magari tu attore non dai per scontate certe cose che noi abbiamo dato per scontate scrivendo le scene, e forse dai un’altra lettura che per noi è nuova e significativa, e chissà, potrebbe essere quella giusta”.

L’ho trovato interessante, infatti la cosa che davvero mi ha conquistato di Dostoevskij è la scrittura. Ricordo l’intestazione di una scena che mi arrivò per il provino, normalmente le descrizioni sono funzionali, esterno giorno etc, per farti inquadrare la scena, e invece questa diceva: “In cielo un temporale feroce come un litigio tra fratelli”. Scritto da due gemelli, capisci che è scritto con il cuore. E lì di conseguenza è molto evidente la cura per ogni frase. Il loro atteggiamento è lo stesso per ogni aspetto del lavoro, questo l’ho scoperto poi lavorandoci insieme. Può essere la scenografia, può essere un movimento di macchina o un movimento interno del personaggio, in questo sono davvero speciali.

Lavorare con loro è stata quindi un’esperienza che non dimenticherai facilmente?

Decisamente. A parte che non capita tutti i giorni di fare un ruolo in cui hai 296 scene, è un lavoro di sei mesi che ricordi anche per la mole. Poi guardandola dall’interno, da dentro, non ti accorgi di cose come le inquadrature: normalmente io sono dentro la scenografia, non vedo come è inquadrato il set, poi però da fuori (l’ho vista tutta per intero a Berlino) emerge la cura. E non sempre la cura estrema che uno mette nel fare le cose è evidente anche fuori, ma qui sì, e mi rende felice. Mi ricorderò l’esperienza anche per questo. Riguardando alcune scene, come quella dell’ospedale, mi sono emozionato, mi hanno turbato, mi sono visto in una prospettiva inusuale, vulnerabile.

L’esperienza che rimane a noi attori, prima di tutto il resto che con il tempo si cancella, è quell’incontro, e il film realizzato con i fratelli è quell’incontro.

La paternità che viene rappresentata nella serie è fragile e problematica, umana. A cosa o a chi ti sei ispirato per restituire una tale sensibilità, anche quando si parla di argomenti molto complessi?

Per dare la faccia ad Enzo, le prime volte, i fratelli mi dicevano: più che interpretare un personaggio dovresti interpretare un paesaggio, un deserto, un uomo estinto, ma non come uomo, come terra. Queste immagini a me parlavano moltissimo.

Al mio ingresso sulla scena del delitto, al forno dove tutto è bianco e poi arrivano le scarpe di Enzo Vitello, la prima indicazione fu: “Cammina come fossi un fiore”. Ovviamente io, Filippo, non sono un fiore, sono un signore di 50 anni con la voce grossa. Con quelle parole mi chiedevano di mettere in atto un disagio, uno stare al mondo.

Per il mio personaggio credo, inconsciamente, di aver attinto totalmente a mio padre. Pensa che dopo aver finito la serie, a Natale, parlandoci scoprii che i miei genitori ormai di notte non dormivano praticamente per niente, chiesi a mio padre perché non parlava con mia madre, non le raccontava la sua vita prima di conoscerla, di sposarsi, e lui mi rispose: “Ma quale vita, io sono sempre stato considerato uno zero”. Con quella risposta mi arrivò un cazzotto, un calcio direttamente in faccia. Ho avuto un papà che si è considerato uno zero, che ha avuto paura, un papà che non si permetteva di andare a parlare con i professori perché non si sentiva all’altezza.

Uno dei grandi temi di Dostoevskij è davvero la genitorialità, con un padre che per alcuni aspetti è molto materno. Penso che l’amore materno non sia riconducibile unicamente a una madre, ma te lo può dare anche un papà.

I momenti che si articolano tra te e Carlotta Gamba, tua figlia nella serie, sono i più commoventi.

Hai visto quanto è brava Carlotta? Immagina poi che facevamo tutte le scene sempre dall’inizio alla fine, senza interromperle, anche se serviva un momento che era in fondo alla scena, i fratelli volevano tutta la scena sempre, c’era una concentrazione estrema.

Filippo Timi e Carlotta Gamba in Dostoevskij, VISION DISTRIBUTION

C’è la scena iniziale della serie in cui leggi fuori campo la lettera di Enzo; sembra di ascoltare alcune intonazioni di Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene.

Nostra Signora dei Turchi è un film che vidi credo trent’anni fa, stupendo, anche se la prima volta che lo vedi non ci capisci molto.

Per le registrazioni della serie è stato molto bello perché ci siamo ritrovati un mese dopo che avevamo finito le riprese, con i fratelli, e abbiamo completato tutte le registrazioni in tre giorni, ma in una modalità stupenda: prendendoci il tempo, ascoltando le frasi, pronunciandole senza fretta. Anche questo è un modo di lavorare su un singolo aspetto dell’opera con cura, prestando attenzione, senza dare nulla per scontato, e il risultato è impressionante.

E si vede, perché ogni parola ha un peso incredibile.

I fratelli D’Innocenzo scrivono benissimo. C’erano da fare alcuni cambi di battute, piccole cose, non sbagliate ma da migliorare. Devi vedere a quel punto la freschezza e l’immediatezza con cui riuscivano a modificarle. La loro scrittura mantiene sempre un certo stupore di gratitudine, ecco in che cosa ci possiamo assomigliare con i fratelli, una specie di stupore di gratitudine nell’occasione data.

E non solo la scrittura, ma anche tutto il resto, come i costumi ad esempio.

Infatti vorrei spendere qualche parola di ringraziamento per tutti i reparti. Purtroppo in fase di lavorazione abbiamo subito una perdita, il costumista è venuto a mancare, immagina che trauma, ma siamo andati avanti, le ragazze che lavoravano con lui sono andate avanti. E tra i costumi e le scenografie c’è una ricercatezza incredibile, basta guardare il lavoro nella scena dell’orfanotrofio, a vederlo dal vivo faceva paura.

Quella scena porta subito a Profondo Rosso di Dario Argento.

Ti confesso che non l’ho mai visto Profondo Rosso, ogni volta che provo a vederlo, quando partono i titoli chiudo gli occhi. Già fui scioccato da Phenomena, era la fine anni ’80, lo passarono in televisione, era estate. Lo guardo e niente, non dormo per quattro giorni.

Ma sicuramente hai colto un’intuizione, perché i fratelli hanno visto praticamente qualsiasi film, sono dei cinefili veri che guardano tutto, facendo poi delle analisi. Hanno una loro visione sulle cose stupenda. Si capisce che sono innamorato, dai.

Come pensi che reagirà il pubblico a Dostoevskij?

Non è che uno fa un’opera d’arte e poi sta lì a pensare: “Chissà il pubblico come la prenderà?” Se non la capisci peggio per te, se la capisci sono contento, perché godi di un’operazione artistica secondo me sincera. Succede che alcuni gesti abbiano una sproporzione artistica, malgrado le difficoltà, e Dostoevskij, cazzo, ce l’ha, punto.

Il valore di una cosa, sì, se attira tanto pubblico può essere accentuato, però è come il valore di un diamante: anche se resta chiuso in cassaforte e nessuno lo sfoggia (o lo porta agli Oscar), quel diamante rimane un diamante, è prezioso. Io trovo che qualsiasi artista se ne debba sbattere del pubblico, non in maniera arrogante, portando avanti il suo progetto non per il pubblico, ma per rispondere ad un’esigenza artistica. Io non sono un numero, e non bisogna essere schiavi dei numeri, o dei soldi, della notorietà o dell’audience.

Prendiamo spunto dai fratelli, le cose si fanno, punto, e se ci vuole un po’ di più chi se ne importa, tutto di guadagnato. Ogni occasione di dialogo è un’occasione d’amore. Goethe definisce l’amore: dialogo, è sempre uno scambio significativo.

Spostiamoci a teatro, a proposito del tuo spettacolo più recente, Scopate Sentimentali (che tornerà a settembre al Parenti di Milano): omaggiare la biografia di Pasolini risponde a questo tipo di esigenza?

L’intento principale era di dare un’altra immagine della sua morte. Non so spiegarlo ma ci sono alcuni artisti, come Van Gogh, Majakovskij o Rimbaud, verso cui abbiamo un debito, non ti so dire perché, è una cosa innata. Sento che alcuni artisti hanno sacrificato parte della loro vita proprio perché hanno creduto tantissimo nell’arte.

Per Pasolini avevo quella spinta lì, e poi Scopate Sentimentali è stato il primo spettacolo in cui ho affrontato il tema del padre: intellettualmente trovo Pasolini un padre, infatti finisco lo spettacolo con un brano di Manuel Agnelli, Grande, che Manuel scrive al padre che non c’è più. Gli dice: “Avevamo un patto io e te, e tu l’hai tradito”, morendo. Quindi secondo me questo spettacolo in un certo senso ha affrontato il mio primo passaggio sulla figura del padre. Infatti è avvenuto poco prima di fare la serie, è stato quasi, non dico preparatorio, ma è come se l’argomento covasse in me. E ho iniziato con la voglia di risarcire questo padre intellettuale, Pier Paolo Pasolini.

Anche la componente musicale è fondamentale poi, perché sei sul palco con Rodrigo D’Erasmo e Mario Conte.

Assolutamente, ma poi qui è fondamentale il rapporto con Rodrigo D’Erasmo e Mario Conte perché ho scritto il testo praticamente mentre loro scrivevano la musica. E non firmo regia, non c’è di fatto regia. Vige un’anarchia registica, anche come piccolo atto politico.

Nuovi spettacoli in programma?

Adesso andrò in scena con Salomè (liberamente ispirato dalla Salomè di Oscar Wilde, N.D.R.), lo porteremo il primo agosto a Roma alla Casa del Jazz.

Il prossimo anno riprendo invece l’Amleto in giro per l’Italia, che fu il mio primo spettacolo. Sarà interessante riproporsi la domanda essere o non essere a cinquant’anni. Si dice che Amleto sia il primo personaggio della storia che prende coscienza di essere un personaggio, quindi è come se innesti una specie di eterno ritorno, ed è la prima volta che ci torno sopra.

Dostoevskij è una serie Sky Original in 6 episodi, una produzione Sky Studios prodotta con Paco Cinematografica. Continua a seguire FRAMED anche su Instagram Telegram.

Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.