Carlo Sironi nasce a Roma nel 1983, realizza due lungometraggi. Il primo, Sole, debutta in concorso nella sezione Orizzonti alla 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, partecipa ai festival di Toronto e Berlino, ottiene una candidatura al David di Donatello e ai Nastri d’argento e vince il Discovery Prize come migliore esordio agli European Film Awards 2020. Il seconfo, Quell’estate con Irène, viene selezionato alla 74esima Berlinale.
Quell’estate con Irène arriva su MUBI dopo essere uscito in sala lo scorso 30 maggio. È un film basato su due attrici formidabili, Noée Abita e Camilla Brandeburg, e tratta di una fuga dalla realtà (e dalla malattia) su un’isola dove le protagoniste si riappropriano della naturalezza dell’adolescenza, vivendo un rapporto di amicizia intenso e importante, in un luogo in cui il tempo sembra fermarsi e un’atmosfera quasi onirica le accoglie.
Carlo Sironi ci ha raccontato come è nato il suo secondo lungometraggio, un’opera che ricerca il senso di ricordo, sfidando i paradosso di un’età caratterizzata da sentimenti estremi, rappresentando l’esperienza di un momento di leggerezza, verso la fine degli anni ’90.
L’intervista a Carlo Sironi
Quell’estate con Irène inizia il suo viaggio con Berlino, dove l’hai portato recentemente?
Il film è passato per tantissimi festival, sono infatti tornato da poco dalla Cina per il Pingyao International Film Festival, dove ero già stato nel 2019 con Sole. Sono felice perché anche lì c’è stata una risposta molto bella. Per capire le impressioni ho anche controllato le views, ovviamente su una app che hanno lì, un sistema alternativo, non utilizzano né IMDB né Letterbox, e di per sé è molto interessante.
Quell’estate con Irène inoltre ha una distribuzione cinese, quindi questo comporta, oltre alla partecipazione al festival, la presenza su due piattaforme, una più arthouse e una più generalista diciamo.
Un aspetto che colpisce del tuo film sono i dettagli, non sapevo inizialmente fosse ambientato alla fine degli anni ’90 ma poi si vedono zaini Invicta vintage e si coglie immediatamente. Perché la scelta di inserirlo in questo momento storico?
Il film mi è venuto in mente in una maniera un po’ strana, nel senso che è avvenuto questo: ascoltavo una canzone dei Cure, To Wish Impossible Things, che poi è quella che chiude il film; una canzone che ascolto praticamente da sempre. Però quella volta, ascoltandola, anche tanto tempo fa perché era prima di Sole, durante l’arco della canzone ho cominciato a vedere queste due ragazze conoscersi, conoscersi in un certo contesto, ovvero quello della malattia. Le ho viste fuggire, ho immaginato l’isola.
Ho avuto una specie di visione del film, ricordo che mi appuntai quelle immagini, quella piccola storia già ambientata nel passato, e la misi nel cassetto.
Dopo aver finito tutta la promozione di Sole ho riletto ciò che avevo scritto e ho capito che queste due ragazze erano così perché mi ricordavano due mie amiche del liceo, che erano legate da un’amicizia un po’ solenne ma anche molto silenziosa, particolare, un legame molto forte, che ovviamente mi aveva lasciato una grande impressione. Quindi ho capito che fondamentalmente il film sì, aveva a che fare con l’amicizia e la libertà, ma tanto con l’idea di memoria più che con l’idea di passato. E mi sono detto, ok, mi ricordo benissimo come eravamo, nel ’97, nel ’99, nel 2001, non è importante l’epoca precisa, ma d’istinto mi è venuto naturale guardare indietro e alla memoria piuttosto che al presente. Per quanto riguarda la ricostruzione dell’epoca, da subito ho stabilito di non voler fare un lavoro pedissequo, cioè di ricerca precisa, l’obiettivo era rappresentare un tempo che fosse identificabile.
La cosa su cui sono sempre stato convinto è che il film dovesse dare l’impressione più di un sogno ad occhi aperti, di una visione, che di una ricostruzione. Non voleva avere niente di realistico, o comunque cercare di perdere il rapporto con il realismo in tutto. La priorità era fare i personaggi, non fare la ricostruzione di un tempo, tra l’altro io me lo ricordo il ’97 non era assolutamente così.
Infatti la consapevolezza del film ci trasporta direttamente nel presente: non è un tipo di consapevolezza che era presente negli anni ’90, anche il fatto che sia volutamente non drammatizzato.
Perché c’è stata una volontà di non realizzare un cancer movie, che poi è un genere che raccoglie film bellissimi, io ad esempio sono innamorato di Restless (2011, N.D.R.) di Gus Van Sant; è uno dei cancer movie più belli del cinema. In Quell’estate con Irène invece c’era la volontà di fare un film su come la memoria sia un puzzle emotivo di episodi, quindi quello che dici non so se è il risultato di un rapporto mio più contemporaneo con la malattia, sicuramente anche per merito delle interviste che abbiamo fatto a ragazzi che hanno vissuto lo stesso percorso.
Che tipo di ricerca hai fatto?
Da un lato c’erano personaggi di pura fantasia, su quel fronte sono voluto rimanere fedele al fatto che il film mi fosse venuto in mente in maniera non razionale, quindi c’è un qualcosa proprio legato all’immaginazione, dall’altro c’era il ricordo del rapporto di queste ragazze, mi sono riletto tutti i diari che le mie amiche tenevano al liceo per ritornare ad un’epoca in cui si parlava in maniera diversa, non più ricca, ma comunque più lenta, meno diretta forse.
Che si riflette nel rapporto tra le due protagoniste.
Sì esattamente. Come parlano, come si relazionano, il fatto poi che non parlino tantissimo, pur essendo molto amiche; questa è una cosa che ricordo delle due ragazze che conoscevo. Il passaggio dal parlare ininterrottamente a una grande capacità di suggellare il legame attraverso tanti silenzi. Un altro elemento su cui lavorare era appunto quello della malattia, che andava ricercata e capita.
E che diventa emblematica nella protezione della pelle dal sole, un altro elemento mai esplicito ma presente.
Sì, diciamo che siamo stati molto delicati sulla rappresentazione e sul racconto della malattia. È stata una scelta molto rischiosa, che talvolta ha pagato molto, talvolta forse meno, ma l’idea era quella. Quindi anche quella metafora vampiresca va quasi a sostituire la drammaticità della tematica della difficoltà della malattia.
Paradossalmente volevo fare un film in cui tutte le difficoltà si scartavano una dopo l’altra fino a che poi sembrava che non ce ne fossero più ma la malattia tornava all’improvviso, senza che le protagoniste se lo aspettassero. Quella è proprio la sensazione che emergeva da alcune interviste che avevamo fatto: era, ed è, il bisogno di dimenticare unito alla forza di quel momento particolare in cui non sei ancora considerato guarito ma sembra andare tutto bene.
Poi con due protagoniste adolescenti il discorso di rappresentazione si fa ancora più complesso.
Sì, non abbiamo mai voluto spezzare questa barriera: è un film in cui questa metafora, che poi è la metafora dell’adolescenza, dell’avere la sensazione che non si morirà mai, e che allo stesso tempo si sta finendo domani, attraversa anche la malattia.
Quali sono stati i tuoi punti di riferimento, narrativamente ma anche riguardo allo stile del film?
Sicuramente tante cose diverse: nell’ambito della letteratura i tre romanzi brevi della raccolta La bella estate di Cesare Pavese, che adoro, come ispirazioni cinematografiche di certo il lavoro di Mia Hansen-Løve, soprattutto nel modo di guardare indietro, alla memoria in Un amour de jeunesse ma anche Tout est pardonné. Ho riguardato i suoi primi film con grande attenzione.
Come hai scelto le due attrici?
È nato prima il personaggio di Irène/Noée Abita nel film. Noée è un’attrice francese molto giovane ma già molto lanciata, che ha praticamente imparato l’italiano per il film.
Mi ricordo che ero a Parigi nel 2017 e stavo facendo una residenza di scrittura per Sole, e andai al cinema a vedere questo film con Noée protagonista, attirato da un poster molto bello. Il titolo era Ava (diretto da Léa Mysius, N.D.R.), ed era stato presentato alla Semaine de la Critique. Il film era bellissimo, ma lei straordinaria, a tal punto che pensai: un giorno vorrei lavorare con quest’attrice.
E mi ricordo che quando scrivevamo il personaggio di Irène mi confrontai con la sceneggiatrice, Silvana Tamma, con la quale ho scritto il film, dicendole che dovevamo trovare un’attrice con le caratteristiche di Noée, poi invece di trovare qualcuno come lei mi sono convinto a contattarla. Ha letto la prima versione della sceneggiatura e ha subito accettato, si è innamorata del film e fondamentalmente la maggior parte del lavoro che ho fatto con lei è stato metterla nella condizione di parlare italiano. Noée è incredibile, e sta facendo un percorso importante, ha già all’attivo quattro film da protagonista in Francia. Restituisce un senso di fragilità interiore e di grande pudore, ma allo stesso tempo ha questa forza quasi legata all’elemento naturale. C’è qualcosa di magmatico in lei.
Poi abbiamo individuato Camilla, che al tempo aveva fatto solo Skam 5, per interpretare Clara. Quando l’ho incontrata è stato evidente che sarebbe stata la scelta più interessante. Di questa scelta sono particolarmente contento perché è stato il suo primo ruolo da protagonista, e credo che abbia un talento immenso. Di solito gli attori bravi quando iniziano sono bravi a portare se stessi, ma sulle cose più complicate di dialogo devono fare ovviamente esperienza, Camilla è il contrario: una cosa che mi ha colpito di lei è che è già esperta, già pronta. Mi ha stupito molto la sua maturità.
Abbiamo poi fatto un incontro per vedere come si trovavano, e differentemente a quello che avevo fatto con Sole, ho fatto poche prove. Ho lasciato loro molto spazio e libertà, e lo stesso ho fatto sul set, evitando di dare indicazioni nei primi ciak. Poi chiaramente aggiustavamo il tiro, o la messa in scena, però come prima impressione volevo vedere come loro impostavano il dialogo, e il linguaggio corporeo. Quell’estate con Irène sono loro, Noée e Camilla, e fare film di personaggio mi piace molto. Questo era un film del genere, a cui si aggiungeva il rapporto con la natura, in cui l’isola è fondamentale.
La fotografia in particolare riporta ad un tempo fuori dal tempo, come avete lavorato su questo aspetto?
Abbiamo usato un sistema di ottiche molto vecchio, molto morbido, che ha una rispondenza strana su alcuni colori. Visto che sapevamo che il film avrebbe avuto il giallo dominante caratteristico di Favignana (dove il film è girato, N.D.R.), abbiamo preso delle ottiche che riescono a modificarlo molto. E poi questo si amalgama con le sequenze in Video8 (standard di videoregistrazione analogica per i sistemi televisivi PAL, SÉCAM e NTSC, N.D.R); è sempre brutto quando in un film c’è un formato di archivio che ha degli altri colori, stride quando vedi un Super 8, anche vero, e poi quella fotografia incisa di adesso, anche se ambientata nella stessa epoca. Qui sapevamo che il V8 aveva quella morbidezza tipica dell’ultimo analogico.
Di recente sei stato Presidente della Giuria di Orvieto Cinema Fest 2024, com’è stato il festival?
Sono parecchio contento dell’esperienza, anche perché la qualità dei cortometraggi in gara era altissima e la delibera è stata molto facile e unanime.
Bye bye Turtle di Selin Öksüzoğlu, a cui abbiamo assegnato il primo premio, è stupendo. Ha questa cosa che ho trovato anche in altri corti in concorso, come un fil rouge: una sorta di impossibilità di poter fuggire, ma anche di rimanere veramente in contesti o condizioni nazionali, piccoli. Un’immobilità, che è anche la condizione contemporanea in cui ci troviamo noi, nell’idea di lasciare la città, o in quella di restare, ma sempre con il sogno di andarsene.
Quell’estate con Irène di Carlo Sironi è attualmente disponibile in streaming su MUBI. Il film è prodotto da Kino produzioni con Rai Cinema in co-produzione con June Films realizzato con il contributo selettivo allo sviluppo e alla produzione del MIC – DGCA, con il sostegno della Sicilia Film Comission, Aide au Cinema du Monde. Una co-produzione Italia-Francia con il supporto del MIC – CNC contributo per lo sviluppo e per la produzione di opere franco – italiane.