Con L’impero Bruno Dumont non ha paura di sovvertire l’immaginario che evoca: prende di peso la lotta tra bene e male e la scaglia in mezzo a un prato, in un lembo sperduto di Francia. Poi si nasconde dietro a un cespuglio e osserva di nascosto l’effetto che fa.
La trama
Francia, Côte d’Opale. Il figlio neonato del pescatore Jony sembra un bambinone placido, contento di stare tra le braccia della nonna. In realtà è l’erede dell’impero del male, al centro del conflitto tra due specie aliene. Gli Zero vogliono tenerlo al sicuro perché l’oscurità trionfi sul genere umano; gli Uno vogliono ucciderlo per estirpare il male e far prosperare il bene. Appartenenti all’una e all’altra specie prendono forma umana conducendo lo scontro tra le vie assolate del villaggio, occasionalmente tornando a rapporto nelle rispettive basi extraterrestri.
Film sgangherati, dove trovarli e perché amarli (o no)
Un certo rifiuto di una narrazione solida, di ampio respiro e tendente all’epica è insito (e forse auspicabile) in ogni film che metta assieme fantascienza e umorismo. È una presa di posizione che si nutre di decenni di cinefila reietta, quella che si entusiasma a veder correre un Frankenstein filmico che sulla carta sarebbe dovuto morire prima di muovere un passo.
Ed è anche uno dei principali argomenti a favore de L’impero tra la sua schiera di sostenitori: meglio un film così che la noia iperprocessata della saga studiata a tavolino, che spinge tutte le leve giuste per fare entertainment. Ma quello che dobbiamo chiederci – noi che amiamo le visioni marginali, che conosciamo Dumont come narratore di una quieta violenza di provincia, e che vogliamo vedere come se la cava con un genere per lui inedito – è: fino a che punto ci sta bene assistere all’ennesimo rimaneggiamento della poetica di un autore per averne in cambio qualche scampolo di soddisfazione diluito in quasi due ore di autoriferimento enigmatico?
Bene o male, in sala come sullo schermo
Se decidiamo che ci sta bene, affrontiamo la visione de L’impero con un’opportuna leggerezza di spirito. Sorvoliamo su una trama impalpabile, ci meravigliamo dell’opulenza settecentesca dello spazio profondo, apprezziamo la lieve assurdità di una battaglia per il destino dell’umanità capeggiata da una sindaca e da una guida turistica. E quando non arriva nulla di più sostanzioso a sostenere la nostra attenzione, ci facciamo bastare il lirismo post-pasoliniano di inquadrature che indugiano su corpi e paesaggi – a suggerire che un senso ulteriore, se c’è, dobbiamo trovarlo a forza di suggestioni individuali.
Se decidiamo che non ci sta bene, ci facciamo guastare la visione dalla sensazione che l’umorismo de L’impero sia più casuale che progettuale. Esaurita la forza trainante dell’idea principale (e di una sequenza d’apertura tesa e densa) rimane poco spazio per un’evoluzione narrativa. Ci troviamo anche noi a gironzolare sull’orlo di un buco nero: in bilico tra la noia indotta da una trama inconcludente e l’ilarità imprevedibile di un intermezzo comico. Qui scopriamo che il regista/sceneggiatore/montatore ci ha lasciati da soli per seguire il filo delle sue ossessioni visive, consegnandoci l’onere di dirimere una questione filosofica per la quale lui stesso nel frattempo ha perso interesse.
Se trasferiamo al cinema questa improbabile lotta tra luce e oscurità, il campo di battaglia siamo noi spettatori, e in ballo c’è il diritto a fruire di un cinema difforme, inventivo ma non convenzionale, forse non riuscito ma vitale. Dumont, da parte sua, sembra ben felice di sottrarsi ad ogni missione etica; a patto, ovviamente, di poter continuare a mostrare bene e male che scopano su un prato.
In breve
L’impero è un film facile da amare a tavolino sulla base delle sue premesse narrative; più difficile è mantenere la stessa posizione una volta usciti dalla sala. La forza visiva delle sequenze spaziali viene diluita da un conflitto abbozzato e da una cornice comica discontinua.