Vasco, si sa, è uno di quegli artisti che richiama passioni estreme: “mi piace” o “non mi piace” sono affermazioni che non gli si addicono, perché, se lo hai ascoltato bene, puoi solo amarlo oppure odiarlo.
Lo odi se hai abituato le tue orecchie alla metrica perfetta di un certo cantautorato italiano. Lo ami se riesci a sentire quella trivialità che intacca la sua metrica come quella spontaneità interiore che non vuole imbrigliarsi in nessuna rigidità normativa, fuggendo con un grido, brutale forse, ma anche liberatorio, umano.
Ma oggi qui non dobbiamo discutere di Vasco Rossi. E siamo fortunati, perché sono piu di 40 anni che si prova a farlo senza arrivare mai a una soluzione, forse perché una soluzione non c’è, come non c’è mai stata nella dialettica tra Apollo e Dioniso, dopotutto.
Parliamo di una serie
Troppo. Restiamo qui, inquadriamo Vasco e mettiamo a fuoco quello che Netflix ha appena creato su di lui: una docuserie di 5 puntate intitolata Il supervissuto.
Un gioco di parole, un neologismo per identificare uno dei pochi miti della musica italiana ancora viventi e, soprattutto, ancora attivi.
Un titolo perfetto, se si pensa al personaggio, cucito sulla pelle della sua vita come solo lui riesce a cucire una canzone sulla pelle di chi lo ama. Egocentrico, come si definisce lui stesso, ma non narcisista: verissimo, perché se lo fosse stato, difficilmente sarebbe riuscito a creare lo stesso intimo contatto con i suoi fan. Ce lo racconta proprio questo documentario, anche se bastavano le parole di una giornalista che ne sapeva abbastanza di poeti e intellettuali, Fernanda Pivano: “Le tue mani grondano immaginario collettivo”, gli scriveva in una lettera su Vanity Fair, “sai piangere con i ragazzi, ma piangendo sai consolarli e rassicurarli, restituendo loro il coraggio”.
Un prodotto confezionato
E Netflix lo tradisce. Tradisce proprio la sua spontaneità, quell’umana istintività che lo porta ad essere amato oppure odiato, che lo porta ad essere, semplicemente, Vasco. Perché Il supervissuto è un prodotto confezionato che sembra strozzargli in gola il suo urlo liberatorio, ingabbiando proprio il nostro immaginario in una struttura rigida, quella che nel marketing si direbbe un “format”.
A ben guardarlo, Il supervissuto non si discosta troppo da Wanna, la serie Netflix dedicata a Wanna Marchi, anzi, è terribilmente simile.
Nel Supervissuto Vasco non piange, né solo né con noi, e non consola o rassicura nessuno, tantomeno ci dà coraggio. L’incoscienza dei suoi inizi, la rabbia delle sue cadute, il dolore delle sue perdite, la forza delle sue rinascite: tutto scompare, come la poesia delle sue canzoni che scivolano piatte nella cornice nera dello schermo che ci divide da loro. Da fuori, dalla nostra postazione di spettatori, anche le sue battute, le sue risate, le sue note e ogni parola che pronuncia sembra recitata appositamente seguendo un copione.
Non dovrebbe suscitare questo effetto, ma purtroppo è ciò resta allo spettatore: un copione recitato.
Dopo averlo visto
Certo, canterai per qualche giorno le canzoni di Vasco, che ti piaccia o meno. Ma lo farai come canticchi quel fastidioso ritotrnello commerciale che ti è entrato in testa dopo averlo ascoltato cento volte alla radio: un motivo che si ripete sulla superficie della tua vita, senza entrarci mai dentro.
Così, dopo aver visto Il supervissuto, se amavi Vasco continuerai ad amarlo, non più di prima, e se lo odiavi, non riuscirai a odiarlo di meno.
E forse, che tu lo ami o lo odi, in nessuno dei due casi consiglieresti di guardare questa serie a chi non lo conosce affatto.
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