Il sesto senso (The Sixth Sense) usciva nelle sale (statunitensi) il 6 agosto 1999, ben 25 anni fa, proprio il giorno del compleanno del regista M. Night Shyamalan, che all’epoca spegneva 28 candeline. Qualche anno dopo, oltre al suo compleanno, avrebbe festeggiato anche l’anniversario del successo di uno dei film più importanti di tutti gli anni ’90 (e della decade che li avrebbe seguiti), che si sarebbe aggiudicato il riconoscimento di Cliffhanger Movie per eccellenza.
Terzo lungometraggio per Shyamalan, Il sesto senso apre la strada a quelli che sarebbero diventati marchi distintivi del suo stile, nonché a film come Signs (2002) o The Village (2004). Chi ha avuto la fortuna di guardarlo al cinema nel ’99, narra di un cambiamento epocale che gli ha illuminato la via della regia come unica perseguibile (innegabilmente Shyamalan è un regista che ne ha ispirati tantissimi altri); chi l’ha recuperato dopo, non importa se su una VHS di Blockbuster o su un IPhone mentre era in treno, segnala gli stessi sintomi: sconvolgimento e adorazione, con nessun segno troppo visibile di questi 25 anni.
Il fascino de Il sesto senso non si esaurisce però dopo la visione; è vero, una volta scoperto il mistero ci sembra di non aver più nulla su cui indagare (e anche la paura o l’angoscia scompaiono), ma è lì che entra in gioco un’insolita percezione, attenta ad altri dettagli, concentrata sull’impalcatura, prima invisibile, che Shyamalan ha costruito per noi, con cura autoriale.
Dove i palinsesti evitano di programmarlo per paura che nessuno lo guardi sapendo già come va a finire, voglio qui illustrare un rinnovato innamoramento, anche per un film che sembra averci detto tutto nell’epilogo. E convincere le mosche bianche che quel finale proprio non lo conoscono a recuperare una storia che ha ristabilito i confini del genere, letteralmente.
Il sesto senso per chi non l’ha mai visto
Il sesto senso è un horror psicologico, uscito nello stesso anno di Matrix e di American Beauty, che indaga i risvolti problematici di un potere così grande da ossessionare la vita del piccolo Cole, che ha 9 anni e nessun amico, se non uno psicologo infantile, il dottor Malcolm Crowe, che prende molto a cuore la sua situazione.
Discostandosi da tutte le prove contemporanee che al cinema avevano indagato (e qualche volta svalutato) il genere, il film di Shyamalan ribalta la moda del tempo, i cliché e i vizi di forma; a 25 anni di distanza, a segnalarvi quanti anni siano passati, sono un rallenty di troppo e gli outfit della mamma di Cole (Toni Collette). Per il resto Il sesto senso vanta di aver rinnovato un linguaggio che cominciava a ristagnare, non solo creando suspense e delineando bene i suoi personaggi, e neanche riservando per gli spettatori un colpo di scena epico, ma nobilitando la rappresentazione della paura, dell’orrore, attraverso una regia per nulla meramente descrittiva, ma poetica, che si è assunta anche i rischi di lente sequenze in campo e controcampo.
Se siete tra i fortunati che non hanno mai visto Il sesto senso è il momento giusto per recuperare.
Il sesto senso per chi lo conosce (quasi) a memoria
Consci del meme rivelatorio Vedo la gente morta, sappiamo che il dottor Malcolm Crowe (Bruce Willis) muore quasi subito, lasciando posto al suo fantasma, convinto di essere ancora fatto di carne e ossa. Entra in contatto con un bambino dotato di un potere che gli permette di interagire con gli spiriti, anche in momenti in cui è l’ultima cosa che desidera. Non solo il finale vi è noto, ma anche la fallimentare discesa dell’attore Haley Joel Osment, il piccolo Cole, attore prodigio osannato da pubblico e critica, finito come ombra di sé stesso in ruoli (per sua fortuna) abbastanza autoironici (come Mesmer nella prima stagione di The Boys).
Tutto questo vi allontana da un rewatch de Il sesto senso, ma solo perché sottovalutate il potere di tutti gli altri dettagli che potrebbero emergere conoscendo già la conclusione. Lo sguardo di Shyamalan diventa qui la prova appassionante di un regista di neanche 30 anni capace di raccontare con tratti cupi una storia paranormale, e infinitamente umana.
I gesti dei personaggi, conoscendone il destino, acquisteranno un nuovo fascino, e una ricchezza di particolari che ad una prima visione sarebbe stato impossibile cogliere. Si capisce ad esempio che tutti gli scambi tra Crowe e sua moglie non sono reali, lei non lo vede e continua a struggersi per il lutto mentre lui pensa che sia per una crisi matrimoniale.
Inoltre il senso di spavento da jump scare, come nell’apparizione della bambina morta per avvelenamento (interpretata da una giovanissima Mischa Barton), lascia spazio alla lettura più matura di una crudeltà perpetrata da aguzzini silenziosi, rappresentata da Shyamalan come il lato oscuro di una nazione apparentemente perfetta. Lo riscontriamo sia nella scena a scuola, dove Cole è l’unico che vede su cosa è fondato quell’edificio, e appunto durante il funerale di una piccola vittima morta per colpa di sua madre.
Questa distanza di ben 25 anni cambia la lente d’indagine, ritrovando ne Il sesto senso una complessità che non si limita al colpo di scena, ma che gli ruota attorno, persistendo anche dopo esserne venuti a conoscenza.