A dieci anni di distanza dalla sua ultima opera, il maestro Hayao Miyazaki torna al cinema con un nuovo film, Il ragazzo e l’airone, nelle sale italiane dal primo gennaio 2024.
Ambientato durante la seconda guerra mondiale, è un racconto dalle tinte psicologiche e dagli ambienti fantastici dell’elaborazione di un lutto materno e dell’accettazione di un nuovo ordine familiare: il film diventa una storia di formazione che squarcia in due l’animo profondo e tormentato del giovane protagonista.
I lunghi giorni della disperazione – ALLERTA SPOILER
In una fabbrica di munizioni Hisako, la madre di Mahito Maki, muore a causa di un’esplosione. Il padre sposa quindi la sorella minore di Hisako, Natsuko, e si trasferisce con Mahito in campagna fino alla fine della guerra. E nella grande villa della zia/mamma Natsuko che Mahito, aiutato da uno strano airone, scoprirà un mondo sovrapposto al suo, abitato da creature e personaggi misteriosi che però sono anche stranamente familiari, e verrà a conoscenza della oscura storia della sua famiglia.
La materia originale del film, ovvero il libro di Genzaburo Yoshino del 1937 E voi come vivrete?, è spogliata della trama e ridotta alle questioni filosofiche che vi vengono dibattute; la trama privilegiata è la componente autobiografica del regista stesso.
Mahito viaggia in una dimensione fantastica, violenta ma accesa di colori, fintamente allegra e pervasa di immagini che restituiscono quella tranquillità rurale che non lo aiuta a superare il suo dolore, in questo il maestro restituisce la perfetta crasi di violenza e tranquillità che si legge in molti suoi film. Le figure che incontra vivono veramente, grazie al realismo magico del film e del mondo miyazakiano, ma sembrano uscire dal suo percorso interiore, dal suo trauma e dal nuovo contesto familiare.
Emblematica in questo senso è la scena dove a Mahito viene offerta la possibilità di accedere in maniera permanente ad un mondo privo di dolore e del male degli uomini: lì il ragazzo capisce che non potrà mai veramente fuggire da entrambi perché sono già parte di lui, solo quando riconosce questo, capiamo che ha accettato la perdita una volta per tutte.
Il ritorno del tempo del sogno
È dai tempi de La tartaruga rossa (2016) che lo Studio Ghibli non rilasciava un film così memorabile. Uno studio dalla filmografia invidiabile (fondato nel 1985 a Tokyo), con quasi tutti i film prodotti nel tempo giudicati eccellenti o dei veri e propri capolavori, lasciando da parte Earwig e la strega (2019), che si era rivelata una macchia su una lista di successi.
Sono anche passati 10 anni da Si alza il vento (2013), l’ultimo film del maestro. Nel frattempo il Giappone animato e fumettistico ci ha colonizzato, e oggi è più difficile definire un lungometraggio di animazione giapponese che esce in sala come una novità.
C’è sempre un’aura di grandezza estetica a precedere questi film, mentre più spesso ormai l’aspettativa che precede i lungometraggi animati dei grandi studios americani è un misto di dubbio e rassegnazione che il loro declino artistico sia totalmente compiuto. In questa guerra di animazione tra Giappone e Stati Uniti, Miyazaki è tornato alla ribalta con un film che affronta in modo fiabesco il trauma, la perdita, e scuote ancora una volta la memoria dell’umanità con quella tremenda ferita che fu la seconda guerra mondiale.
La fusione tra storico e fantastico, marchio della sua poetica e della sua veemente forza artistica, si dimostra ancora una volta ideale per raccontare il mondo della fanciullezza, del coraggio dei giovanissimi e delle loro lotte in un mondo più grande e crudele di loro.
Il sacrificio del proprio dolore
Si dice che durante la seconda guerra mondiale il popolo giapponese non venne a conoscenza delle progressive sconfitte subite finché non seppe di aver perso la guerra. La propaganda diffondeva ovunque la retorica della forza e della vittoria, salvo poi un giorno diramare l’annuncio della resa incondizionata. L’imperatore Hirohito, divino figlio del Sole, fu il primo a dover dichiarare nel 1946 che la natura dell’imperatore era umana.
Noi italiani, complici una memoria cortissima e un retaggio politico con cui non abbiamo mai veramente fatto i conti, non possiamo neanche lontanamente immaginare cosa deve essere stata per i giapponesi la seconda guerra mondiale, la resa incondizionata finale e la successiva occupazione statunitense della Nazione. Tali tematiche, affrontate spesso in opere artistiche in Giappone, si sono infine riversate anche nel cinema d’animazione. Il capolavoro di Takahata, Una tomba per le lucciole del 1988, è paradigmatico in questo contesto.
Anche Miyazaki (qui e in Si alza il vento) ha dimostrato di essere figlio di quel Giappone distrutto, ferito e ormai disilluso: in entrambi i film ad emergere infatti sono sempre i suoi sprazzi di autobiografismo, che siano proiezioni o vere e proprie esperienze.
Ancora oggi però i giapponesi dimostrano di vigilare costantemente sul loro passato, sulla loro storia e sul loro dolore. Se molti aspetti della loro vita quotidiana preferiscono tacerli all’Occidente oltre che a sé stessi, come il Karoshi (lett. “Morte da superlavoro”) o la recente questione della pedofilia animata, gli aspetti più storici o globali del loro dolore diventano invece materia per delle meravigliose opere. Pensiamo anche all’influenza sui lavori di Shinkai delle recenti catastrofi naturali occorse in Giappone.
In breve
Non c’è dono più gradito per questo nuovo anno di un film del maestro Hayao Miyazaki. La tecnica, ancora una volta eccelsa, accompagna la visione dello spettatore, incantandolo fino alle lacrime, alla riflessione e alla meraviglia che l’opera esprime. Il tempo lo porterà ancora più in alto di dove è ora, ma possiamo già affermarne la grandezza e la bellezza.
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