La scrittrice messicana Guadalupe Nettel torna in Italia con Il corpo in cui sono nata, opera edita da La Nuova Frontiera (traduzione Federica Niola) precedentemente pubblicata in Italia nel 2014 da Einaudi. Partendo dai suoi ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza, Guadalupe Nettel dà vita a un romanzo onesto e senza fronzoli che racconta un percorso di accettazione del sé attraverso quello del proprio corpo.
Scrivere per esistere fuori dai pregiudizi
Un neo bianco sulla cornea dell’occhio destro della protagonista innesca il racconto, l’imperfezione del corpo rappresenta il motore della scrittura. L’autrice latinoamericana ha molto caro il tema dell’inadeguatezza, delle forme fisiche che non rispondono ai criteri della perfezione e, attraverso il suo lavoro rivendica chiaramente il diritto alla diversità. Anche nel suo romanzo La figlia unica (La Nuova Frontiera 2020), la difformità fisica occupa un ruolo centrale ma, a differenza del lavoro precedente, ne Il corpo in cui sono nata gli occhi da outsider attraverso i quali viene descritto il mondo sono quelli di una bambina che poi diventa adolescente.
Nel libro una donna adulta racconta gli anni d’infanzia alla sua psicanalista; sin dall’esordio dell’opera emerge, dunque, lo scopo terapeutico della narrazione. “Vorrei chiarire che l’origine di questo racconto risiede nella necessità di capire alcuni fatti e alcune dinamiche che hanno dato forma all’amalgama complesso, al mosaico di immagini, di ricordi e di emozioni che respira con me, ricorda con me, interagisce con gli altri e si rifugia nella penna come gli altri si rifugiano nell’alcol o nel gioco”. La bambina protagonista del libro impara presto a usare la scrittura come antidoto alla passività, come strumento magico per rendere meno opprimente la propria marginalità. Le storie horror scritte sui suoi compagni di classe la aiutano a tradurre in azione il risentimento covato e inaspettatamente la rendono speciale per quelli che l’avevano ghettizzata a causa della sua anomalia.
Anche dopo la prima infanzia a Città del Messico, caratterizzata dalla separazione dei genitori e da un periodo di convivenza con la nonna, la protagonista trasferitasi in Francia dalla madre rientrerà ancora una volta nella categoria dei freak. Sebbene in Messico fosse stata benestante e istruita in questo nuovo mondo acquisisce una nuova identità di immigrata povera, immersa nei fumi della banlieue e appesantita dalla classe sociale di appartenenza. Anche in questo contesto la ragazza continua a nutrire la passione per la scrittura, lo confessa al nuovo amico Blaise, colui che la aiuterà a considerare le loro differenze come tratti che li distinguono dalla massa.
Doppia vista, molteplici prospettive
Per stimolare la reattività dell’occhio malfunzionante, la bambina nei suoi primi anni di vita è costretta a indossare per mezza giornata un cerotto sull’occhio sano. Questa separazione netta tra la visione opaca del giorno e quella definita del pomeriggio la porterà a non avere mai un’unica maniera di interpretare ciò che la circonda ma piuttosto a sviluppare delle idee dalle molteplici prospettive. Lo sforzo affrontato nel mettere a fuoco l’universo la accompagnerà anche durante l’adolescenza ma col tempo diventerà un’inclinazione naturale a interrogarsi sulla complessità delle cose. Questa sua doppia vista preannuncia una serie di dicotomie con cui si troverà a dover fare i conti: lo stoicismo della madre vs la tolleranza del padre, l’oscurantismo primonovecentesco della nonna vs la sua voglia di rivalsa in un contesto sociale che schiaccia i diritti delle donne.
La mia vita era divisa tra due tipi di universo: quello mattutino, costituito soprattutto da suoni e da stimoli olfattivi, ma anche da colori nebulosi, e quello pomeridiano, sempre liberatorio ma anche di una precisione stupefacente
Insetti e “difetti di fabbrica”
A perseguitare la bambina durante la sua infanzia c’è una visione ricorrente, quella degli insetti: prima orribili e spaventosi e poi innocui e benevoli, incarnano la paura della diversità che si attenua col tempo e con l’esperienza. La sua immaginazione non dà vita alle farfalle, come quelle di carta attaccate sulla sua prima lettera d’amore, perché il mondo in cui cresce fa della perfezione un’ossessione claustrofobica. È probabile che il legame con queste creature tanto bistrattate dagli uomini derivi dall’affettuoso appellativo affibbiatole dalla madre, “scarafaggio”, che in un certo senso si fa emblema del regime correttivo dei “difetti di fabbrica” a cui sin da piccina è sottoposta.
La ragazzina che, leggendo La metamorfosi di Kafka s’immedesima in Gregor Samsa, è condizionata dai genitori che bandiscono la spontaneità di gesti, postura e parole nonostante considerino sacrosanto il loro compito di tramandare ai figli la verità su tutto. L’educazione sessuale precoce, la consapevolezza dell’inesistenza di Babbo Natale gettano la protagonista e suo fratello in un mondo reale in cui è necessario combattere. La preoccupazione della ragazza di deludere la madre si trasformerà col tempo nell’amarezza di quello che il loro rapporto sarebbe potuto essere, d’altro canto la stupefacente capacità del padre di prendere distanza dai momenti difficili con l’ironia sarà per lei come un raggio di luce.
Nel Messico degli anni ‘70
Nelle pagine del romanzo si avverte il peso della storia: in una “Città del Messico invasa dalle fognature guaste e dalle discariche” fanno capolino il tragico passato delle Olimpiadi del 1968 e le vicende strazianti degli esuli cileni in cerca di salvezza. Tra questi c’è Xilena, una sorta di alter ego della protagonista, una bambina con un padre ucciso dal regime di Pinochet che “aveva deciso di scappare, una volta per tutte, dalla prigione della sua vita”.
Il corpo è la nostra storia
Come Diario di un corpo di Daniel Pennac (Feltrinelli 2012) e la raccolta di testi Anatomia sensibile di Andrés Neuman (Sur 2021) celebrano il corpo in quanto libera forma di espressione, anche il romanzo di Guadalupe Nettel inneggia all’incoerenza dell’aspetto fisico che sfugge alle illusorie regole di Photoshop.
Il corpo della protagonista è in continua trasformazione, è perlustrato dalle secondine nel carcere dove è richiuso il padre, è oggetto della sua infelicità e delle insinuazioni della madre, si fa veicolo del senso di estraneità nei confronti del mondo, si dissolve nella scrittura e si trasforma in parole per poi ritornare a essere materia e accettazione.
Il corpo si racconta attraverso i suoi segni visibili che, seppur imperfetti, rendono unico ogni essere umano. “Ogni oggettività è soggettiva” scrive Nettel in questa coinvolgente fiction ricca di elementi biografici, quasi a voler ricordare ai suoi lettori che un’unica narrazione della realtà non esiste e che ogni individuo deve trovare la propria anche attraverso il corpo che abita.
Ringraziamo La Nuova Frontiera per averci dato la possibilità di leggere Il corpo in cui sono nata.
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