I primi tre episodi di House of the Dragon 2 avevano allargato gli orizzonti, introducendo nuove dinamiche e personaggi, peccato però che la promessa di azione (o di qualsiasi altra cosa ci avesse impedito di annoiarci) si sia dissolta in una nube di promesse infrante. La seconda stagione di House of the Dragon, composta da otto episodi in tutto, si configura così come un lento e barboso tassello di passaggio in cui pochi sono i momenti memorabili, o almeno determinanti per la narrazione. Non che le cose non succedano, ma la loro rappresentazione è così debole da annullarne ogni potenzialità.
In un assetto malriuscito dove i personaggi cambiano intenzioni senza cognizione di causa e la sigla rimane l’elemento più riconoscibile, tutto si prepara ad una terza stagione di guerra e sangue, ma intanto gli avvenimenti tra Rhaenyra, Daemon e gli altri componenti della famiglia divisa tra Targaryen e Hightower suscitano poco interesse. Come se ogni evento fosse stato privato di quel fascino solenne che caratterizzava Game of Thrones, House of the Dragon 2 procede cauta verso un fallimento preannunciato, rendendo pallosi pure i draghi.
Cosa non ha funzionato? La lista è lunga, e arrivando all’epilogo risulta più interessante il dietro le quinte (dove la bravura delle maestranze coinvolte brilla per sapienza e originalità) che la stagione stessa.
Ma in particolare a deludere è stata la scrittura carente e priva di piglio, che ci ha fatto sorbire molteplici momenti ad Harrenhal senza arrivare ad un dunque se non negli ultimi minuti, e che ha sprecato letteralmente le possibilità di un personaggio come Rhaenyra Targaryen (Emma D’Arcy). Da qui in poi spoiler alert.
Rhaenyra non è Daenerys
Dragonstone (Roccia del drago) è dove Rhaenyra e la sua famiglia si rifugiano dopo la morte di Viserys e l’usurpazione del trono da parte di Aegon. Lì la vera regina (così avrebbe voluto suo padre) dovrebbe progettare uno schema d’attacco per reagire.
Ma il siparietto che ne consegue è segno di una scrittura senza aspirazioni di alcun tipo; ogni scena attorno al tavolo tra Rhaenyra e i suoi consiglieri è un inutile botta e risposta in cui un gruppo di uomini di una certa età cercano di spingere la donna alla guerra, la quale però, sulle orme del genitore, fa di tutto per evitare che questo accada. Va bene in un primo episodio, va bene anche in un secondo, ma questo pattern viene ripetuto fino a quando la morte di Rhaenys non esige un contrattacco.
Rhaenyra appariva nella prima stagione (e soprattutto da bambina) come una degna antenata di Daenerys, ma a spegnere quel fuoco sono stati gli sceneggiatori, e chi pensava che raccontare così il senso della misura e del valore avrebbe avuto un qualche riscontro. Quasi invisibile, la regina dei draghi si sveglia solo alla fine, tirando le orecchie a Daemon in uno scambio tiepido alla Sandra e Raimondo, tirando un ceffone ad uno dei consiglieri meno rispettosi e dichiarando finalmente guerra.
La magia di Harrenhal ci ha sfiancato
Anche qui la reiterazione statica sfianca lo spettatore: Daemon, partito alla volta del castello in rovina di Harrenhal per trovare un esercito e iniziare a rimetterlo a nuovo, viene travolto da una sequela di visioni sovrannaturali legate al luogo maledetto e allo zampino di una strega, Alys (Gayle Rankin di Glow). Tali visioni, popolate di fantasmi, oscure presenze suscitate da un ego ferito, e probabilmente intrugli strani, sono inizialmente allettanti, finalmente la magia torna a vivere a Westeros e noi ne siamo felicissimi.
Ma alla quarta apparizione c’è qualcosa che non va. Abbiamo capito che Daemon è fortemente disturbato, e pure che il trono lo vorrebbe solo per sé, ma vederlo ancora una volta barcollante e stordito come se avesse mangiato troppo stufato d’oca è insostenibile. Come per Rhaenyra è necessario arrivare all’episodio conclusivo per comprendere il motivo di tale tedio narrativo: c’è un filo invisibile che collega quelle visioni ad Helaena, figlia di Alicent, che da sempre ha avuto un modo di vedere fuori dal comune.
Ma è con l’ultima visione che arriva il falso compenso per chi è riuscito a tenere duro fino a quel punto, ovvero un montaggio ammiccante (ed esteticamente mal concepito) a tutto ciò che sarà, con tanto di Re della Notte e Daenerys.
Dulcis in fundo: il casting
Mentre la vecchia guardia, ovvero gli attori adulti come Rhys Ifans che interpreta Otto Hightower, o Paddy Considine nel ruolo del re Viserys I Targaryen, ma anche Eve Best (Rhaenys) e Steve Toussaint (Corlys), mostrano delle capacità di un certo livello, le nuove “promesse” non convincono del tutto. Togliendo anche i bravissimi Matt Smith, Emma D’Arcy e Olivia Cooke che ce l’hanno messa tutta nonostante i dialoghi realizzati per loro, a deludere di episodio in episodio sono i giovani, figli e nipoti, ovvero la nuova generazione di Targaryen.
Tra l’immobilità di Aemond (Ewan Mitchell), il broncio costante di Jacaerys Velaryon (Harry Collett) e l’inespressività di Baela Targaryen (Bethany Antonia) viene da chiedersi che tipo di casting è stato portato avanti. Nessuno di loro è veramente credibile nei panni che gli sono stati cuciti addosso, riceviamo una scintilla di speranza solo quando ad esordire è il giovanissimo Oscar Tully (Archie Barnes), che tanto ricorda l’impeto di Lyanna Mormont in GOT.
In breve
Se l’intento era quello di convincerci a proseguire con la terza stagione gli autori di House of the Dragon hanno puntato sugli elementi sbagliati: una ripetitiva sceneggiatura mal si accorda alla costante inazione dei personaggi. Se neanche la presenza di draghi giganteschi risolleva l’esito di questa seconda stagione è difficile capire cosa renderà la terza imperdibile.