Quanto è difficile dare una forma ai pensieri quando le cose vanno bene. La critica è facile, è dietro l’angolo, fugge dalla tastiera. Ma quando, di critiche, non ce ne sono o non sono importanti o sono sommerse da tutt’altro, il compito è arduo. A costo di generare pruriti in certi maschi spaventati all’idea di ammettere che qualcosa che piace alle donne giovani sia pure di qualità, qualcuno deve pur dirlo che ben venga essere fangirl, ben venga la gentilezza, i cuori morbidi, gli angoli rotondi, l’amore. Per questo ben venga scrivere bene della data finale di Love on Tour di Harry Styles.
Cosa è successo?
Harry Styles ha chiuso in grande due anni di Love on Tour, sfumati nella polvere dei fuochi d’artificio nella notte, caldissima, della campagna emiliana: quello che è successo a Campovolo lo scorso sabato 22 luglio è il trionfo di una popstar che non si è seduta sugli allori ed è riuscita ad offrire uno spettacolo che non adombra la musica, ma che oltre la musica ha molto di più.
Difficile non avere la sensazione di trovarsi in una versione 2.0, instagrammabile, di Woodstock: un ritrovo celebrativo di valori che si estende oltre le due ore e mezza di live in sé. Dalle meticolose preparazioni per le fan action, fino a chi ha piantato la tenda sette o più giorni prima. Si celebra la meglio gioventù, quella accogliente, quella inclusiva, quella sensibile, emozionata, insicura, impaurita, forte.
Certo giornalismo si è leccato le dita all’idea di sfruttare la succulenta questione delle poche irriducibili fan accampate per più di una settimana pur di conquistare una prima fila. Facile da criticare, distorcere e ingigantire con sfilze di notizie, rigorosamente declinate al femminile, per quella strana, triste, abitudine di covare un odio ancestrale verso donne adulte e responsabili che scelgono di fare qualcosa che le renderà felici. Che non è un omicidio di primo grado, ma un campeggio. E che bello poter fare qualcosa che ti rende felice. Che bello il fiume di visi glitterati e sorridenti, aspettative ed emozioni da primo concerto, italiano, inglese, lingue che si mischiano, cartelloni e canzoni a memoria. E che belli i corpi: liberi, colorati, nudi, avvolti da boa di piume rosa, dai brillantini, dalla voglia di esistere e occupare spazio senza che nessuno possa prendersi la briga di giudicare.
Fuori dagli sche(r)mi
Distopico di per sé assistere finalmente in carne ed ossa ad un concerto che pare di aver già vissuto su TikTok: si rincorrono i meme, gli inside jokes, i linguaggi esoterici, i sottotesti e i metadiscorsi che due anni di tour hanno accumulato. Che Harry stesso, ormai, conosce: dal “leave america” di As it was, alla coreografia di Treat people with kindness, che lui stesso accenna. Anni di accumulazione di contenuti e strati digitali rendono l’effettiva esperienza reale diversa da qualunque altra, quasi come fosse strano che non ci si trovi dietro il perimetro del telefono e il layout di TikTok e Twitter. Un bombardamento visivo che se da un lato nasce dalla volontà di documentare a tutti i costi un evento imperdibile e far vedere cosa vuol dire esserci davvero, dall’altro non riesce affatto a catturare e restituire cosa significa davvero vivere una tappa del Love on Tour.
L’Harry Styles degli edit TikTok e dei milioni di video sotto l’hashtag è un super showman disinvolto che tiene il pubblico sul dito di una mano, che può fare tutto quello che vuole, dire tutto quello che vuole, ballare, scherzare e leggere i cartelli, e avrà sempre e comunque tutti stregati sotto una specie di incantesimo. Ma l’insieme rischia di distogliere da una cosa fondamentale, che diventa evidente, poi, dal vivo: Harry, quello in carne ed ossa, è innanzitutto un musicista. E un musicista bravo.
La musica non è affatto in secondo piano rispetto a quello che è comunque, a tutti gli effetti, un grande spettacolo. Ma Harry non è una manciata di pixel, un suono virale e nemmeno l’ex One Direction che ha spiccato il volo, è un artista che ha preso una fama incontenibile, raccolta quando era poco più che adolescente e ne ha fatto qualcosa di veramente grande e soltanto suo. Non è nemmeno una macchina macina-successi rodata da tredici anni di vita sui palchi, è un ventinovenne probabilmente all’apice della sua carriera, stanco e stremato da un tour incessante che è, per disgrazia del fandom e per fortuna delle sue corde vocali, finalmente finito.
È uno che il palco lo sa tenere, canta al massimo delle sue capacità, nonostante tutto, balla, saltella e parla in italiano col pubblico ma che poi, si emoziona e ingoia le lacrime, suona il piano e gli tremano le mani. Baci e saluti e si è portato a casa l’approvazione di centomila persone.
Quello che resta
Harry Styles come una cometa argentata nel buio dell’Emilia schizza via dal palco e sparisce. Si lascia dietro i cartelloni calpestati, qualche piuma colorata rimasta a vorticare nel vento, gli eyeliner annegati dalle lacrime, qualcuno che si abbraccia. Nell’aria frizzante della notte di Campovolo resta ancora un po’ di magia, ancora un po’ di amore. Resta la fortuna di esserci stati. We’ll be alright. E se ce lo dice Harry, ci possiamo pure credere.