Tre scienziati ricercatori universitari sono messi alla porta dalla Facoltà. Per sopravvivere inventano un mestiere inedito e “particolare” col quale ottengono un enorme successo. No, non è la trama di Smetto quando voglio. Perché siamo nel 1984, a New York, e il mestiere non è quello di produttori di droga, ma di “acchiappafantasmi”. O, meglio, di ghostbusters.
Straordinario pensare come 35 anni non cambino nulla, soprattutto se si considera che il cinema è lo specchio della società. Non a caso, al di là dei possibili riferimenti filmici nostrani, sono proprio loro, i ghostbusters, a testimoniarlo in maniera diretta, tornando nella realtà brutale della società contemporanea, dove la fama è effimera e ognuno, in un modo o in un altro, ha il suo mutuo da pagare.
È questo il perfetto contatto con la realtà messo in scena nel terzo capitolo della saga Ghostbusters. Anche se sembra prenderlo da lontano: sfrattati dal loro appartamento, una madre single e i suoi due figli sono costretti a trasferirsi nella fattoria del nonno defunto. Uno strano personaggio, strano come gli eventi che iniziano ad accadergli attorno e che, lentamente, gli permettono di conoscerlo meglio, fino a scoprire chi è stato realmente.
L’eredità di Ghostbusters
Così, insieme con i nuovi protagonisti (tutti più o meno provenienti dalla saga degli Avengers), ritroviamo gli ex celeberrimi professori Ray Stantz (Dan Aykroyd), Egon Spengler (l’ologramma del defunto attore Harold Ramis) e Peter Venkman (Bill Murray) in un mondo che li ha dimenticati e relegati chi alla ricerca clandestina, chi alla semplice lettura del paranormale e chi, al peggio, a un impiego da Starbucks. Oltre a loro, naturalmente ritroviamo anche l’altro ghostbuster, l’ex marine Winston Zeddemore (Ernie Hudson) e le sempre splendide Dana (Sigourney Weaver) e Janine (Annie Potts).
Un incontro che sembra avvenire in modo del tutto naturale, grazie all’ottima sceneggiatura capace di offrire allo spettatore una fluida continuità con i due capitoli precedenti. Partendo da personaggi nuovi, insieme a loro si scopre quello che è stato il destino dei gloriosi ghostbusters. Un percorso che ha la giusta traiettoria di una memoria ereditaria e che, strano a dirsi, viene rappresentato meglio dal titolo “italiano” di questo terzo capitolo, Ghostbusters: Legacy, piuttosto che da quello originale, Ghostbusters: Afterlife.
D’altronde, Ghostbusters: Legacy è in tutto e per tutto una eredità. A curare sceneggiatura e regia, infatti, è Jason Reitman, figlio di Ivan, il regista dei primi due mitici capitoli. Jason riesce meravigliosamente a riportare la stessa ironia dei primi due Ghostbusters, grazie alla costruzione di dialoghi asciutti e diretti che non permettono mai all’attenzione di calare, promettendo costantemente una battuta capace di arrivare sempre, puntuale e brillante. Un risultato che Reitman ha ottenuto attraverso un preciso lavoro sui personaggi, soprattutto quelli nuovi, che ha saputo disegnare come un naturale sviluppo di quelli originari, sfruttando anche in questo il “fattore ereditario”.
Ma Reitman fa tutto questo con una certa intelligenza nel seguire i gusti contemporanei o, se preferite, i gusti di mercato. Perché nella regia, nella sceneggiatura, nella scenografia (rivoluzionata rispetto alla Manhattan originaria, qui siamo in Oklahoma) e nella fotografia strizza l’occhio a una serie di recente successo come Stranger Things, di cui raccoglie furbamente anche uno dei protagonisti, Finn Wolfhard.
Dal 1984 al 2021 e ritorno
Nell’insieme Reitman costruisce un’atmosfera anni ’80 che sembra rimandare ancora a Stranger Things, ma che in realtà costituisce il vero legame con i primi due capitoli di Ghostbusters. L’amalgama di tutti gli ingredienti che danno vita a Ghostbuster: Legacy, infatti, è il cortocircuito spazio-temporale che riesce a creare. Come se gli immensi spazi senza tempo del West degli Stati Uniti dov’è ambientato rendano vivida l’impressione che quello che si sta guardando sia ambientato 35 anni fa. Uno spazio che resiste all’invasione di Internet e della sua tecnologia, per quanto essa sia presente, e che riesce a giustificare l’oblio del mondo verso chi 35 anni prima lo ha salvato. Un vero e proprio salto dal 1984 al 2021, come se niente, nel frattempo, fosse accaduto. Il salto di una generazione intera, quella dei genitori, che sancisce il passaggio diretto dai nonni (Egon) ai nipoti (Phoebe), anche al di là della morte.
Un lavoro, quello di Jason Reitman, delicato, com’è il compito di raccogliere un’eredità. Figurarsi se si tratta dell’eredità di un mito com’è Ghostbusters.
E tuttavia, un lavoro che sembra riuscire, anche perché con esso Reitman ha saputo convincere quella persona il cui rifiuto di innumerevoli altre sceneggiature è stato il motivo che per decenni ha trattenuto in un cassetto il terzo capitolo di Ghostbusters: Bill Murray. E per fortuna ci è riuscito, perché quella decina di battute che recita valgono da sole il prezzo del biglietto.
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