freaks out
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Se oggi vediamo e parliamo di Freaks Out è grazie a ciò che è venuto prima, che ha posto le miracolose basi per lo spettacolo artificiale che ha visto la luce dopo un’infinita fase di post-produzione.

Nel 2015 usciva infatti un film che fece palpitare di speranza i cuori di chi, nel cinema italiano, ci sperava ancora. Lo chiamavano Jeeg Robot si fece largo nelle sale, mantenendo l’affluenza anche grazie allo stupito passaparola di chi gli volle dare fiducia già nel primo weekend di programmazione. All’epoca Gabriele Mainetti aveva alle spalle una contenuta carriera attoriale (soprattutto televisiva), e due cortometraggi di successo. Basette (2008) e Tiger Boy (2012) nello specifico avevano fatto emergere la predilezione per la regia di Mainetti, annunciando e presagendo tutta una serie di temi che il suo lungometraggio di esordio avrebbe portato alla gloria. Su tutti, la capacità trasformativa della fantasia sulla realtà, l’incursione dell’immaginifico nella tetra esistenza degli svantaggiati.

Enzo Ceccotti/Jeeg Robot (Claudio Santamaria) in Lo chiamavano Jeeg Robot - Credits Lucky Red
Enzo Ceccotti/Jeeg Robot (Claudio Santamaria) in Lo chiamavano Jeeg Robot – Credits Lucky Red

Da Jeeg Robot ai freaks

Con Lo chiamavano Jeeg Robot Gabriele Mainetti sale agli onori della cronaca. La poetica del regista (così come, immaginiamo, il budget relativamente piccolo) fa sì che la potenziale storia caciarona che scimmiotta il cinema d’azione americano divenga una narrazione molto intima. Sempre su temi quali la responsabilità che deriva dai poteri (semicit.), ma che nasce in un contesto di degrado e di sofferenza sociale così preponderante da renderlo il fulcro dell’opera. Affrontando di petto problemi quali la malattia mentale in un modo commovente, facendo sì che siano i momenti che del film colpiscono con maggior forza.

Il film conta attori noti come Claudio Santamaria e Luca Marinelli (che quell’anno “fece il botto”, per citare il suo Zingaro, con questo film e Non essere cattivo di Caligari), e meno noti come Antonia Truppo. O non noti (non attori!) come l’ex gieffina Ilenia Pastorelli, straordinaria rivelazione del film.

La capacità di costruire dei personaggi indimenticabili, veri, anche quando non eccessivamente approfonditi (in collaborazione, ovviamente con Nicola Guaglianone, alla sceneggiatura), e quindi di lavorare con gli attori è stata una delle qualità di Mainetti che più ha suscitato ammirazione.

Arrivando a Freaks Out

Con Freaks Out torna questo amore per i suoi personaggi e chi li interpreta, declamata dallo stesso Mainetti sui suoi profili social prima e dopo l’uscita del film. Una serie di istantanee ci immerge nella storia e nella costruzione di Matilde, Cencio, Franz e gli altri, raccontandoci ciò che sta dietro e dentro ai suoi freak.

Il post dedicato a Cencio (Pietro Castellitto) sul profilo Instagram di Mainetti

Ma quanto e cosa è rimasto in questo Freaks Out della novità e audacia di Jeeg Robot e degli esperimenti in corto?

La fiducia è salita, anche e soprattutto grazie a termini meramente economici (ed è così d’altronde che funziona il cinema). Il budget si è più che decuplicato, allargando il campo delle possibilità produttive che in Jeeg Robot rimanevano un sogno e una spinta. Ma era anche quella la forza del film precedente, che dalle ristrettezze, come spesso accade, traeva il meglio, se vogliamo vederle come terreno fertile per ingegnarsi e osare.

E sono salite a dismisura anche le aspettative. Tutti eravamo pronti a testimoniare un qualcosa di epocale, uno sperato cambio di passo del cinema italiano. E questo, c’è poco da girarci in torno, Freaks Out è stato, a livello produttivo e ricettivo. Ma – dal punto di vista narrativo e formale – come?

Il cinema da cui trae ispirazione Freaks Out

La novità stilistica e tecnica di Jeeg Robot si evolve con Freaks Out. Un film ancora in sala, che ha creato non poco dibattito ma che, a prescindere, ci ha riempito gli occhi di quel senso di meraviglia che raramente continua ad essere presente nel cinema italiano contemporaneo. Una meraviglia propria del cinema delle attrazioni, trasognata e onirica, che stabilisce un contatto quasi forzato e violento con il cinema narrativo, che nella prima sequenza irrompe durante lo spettacolo del circo e dei freaks con la veridicità della guerra.

Gli eroi di Mainetti sono stavolta immersi nella seconda guerra mondiale, in una Roma assediata da nazisti dove il Berlin Zircus attira spettatori da tutta la città grazie al villain Franz: il formidabile pianista con sei dita per mano. Anche lui considerato un freak da allontanare dall’ambito ufficiale dell’esercito di Hitler e relegato allo spettacolo, un’esca apparentemente perfetta per abbindolare il pubblico, convincendolo che tutto stia procedendo per il verso giusto. Ma anche un collezionatore folle determinato a raccogliere la squadra vincente di eroi da donare al Führer.

La regia e l’estetica affascinante

La regia del film stabilisce un coinvolgimento spettatoriale intenso. Lo sguardo così efficace, su un tipo di intrattenimento in molti momenti action, rende Freaks Out un film universale in grado di suscitare una serie di emozioni di base che si accendono con la mobilità flessibile del regista nel raccontare le immagini.

Nel dialogo costante tra attrazioni del circo, super poteri e cruda inevitabilità del conflitto mondiale, alcuni dettagli vengono tralasciati, forse per scelta, per dare spazio ad un incanto totalizzante e traboccante nella costruzione estetica. Nella città non compare neanche un fascista e il destino di Matilde non abbraccia le speranze di ogni spettatore (ma non faremo spoiler per garantirvi una pura visione).

La forza delle scenografie e la consistenza dei costumi

La riuscita magia della favola costruita da Mainetti e da Guaglianone si sprigiona attraverso la cornice di scenografie e costumi, anima materica del film. Basti pensare all’atmosfera del circo, in cui la solennità degli arredi e l’entrata al tendone, dal conturbante fascino ambiguo, accolgono al loro interno come delle fauci pronte ad addentare. Lo scenografo è Massimiliano Sturiale, che si è distinto per il gusto e l’eleganza in un film recente come La Stanza, di Stefano Lodovichi.

Un discorso simile e complementare è quello dei costumi di scena. Sono abiti per abbagliare ma anche vesti povere, per ricoprire ciò che rimane attaccato ai corpi durante la guerra che ha già devastato quanto poteva. Sono il risultato di ricerca storica con l’arricchimento di dettagli contemporanei, in particolare per il personaggio di Franz che con il futuro ha un rapporto visionario. Il lavoro sugli abiti è di Mary Montalto, già costumista di Lo chiamavano Jeeg Robot.

Le stoffe e i materiali concorrono a rendere Freaks Out uno spettacolo reale, in cui le consistenze e gli oggetti fanno parte dei personaggi e li rendono unici ancor prima di conoscere i loro poteri.

Gli eroi di Mainetti si spingono quindi oltre, trascinandoci ancora più a fondo della sua idea di cinema.

L’articolo è a cura di Alessandra Vignocchi e Silvia Pezzopane.

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