Grazia La Padula – Beta, su LINUS ottobre 2020
76 anni e più di 40 album pubblicati: Franco Battiato persiste nella nostra memoria come i versi di una poesia che non abbiamo ancora compreso appieno.
Battiato illustrato
Qualche mese fa, sfogliando il numero di ottobre di LINUS, l’unica rivista di cui non perdo un’uscita, ho letto una breve storia a fumetti, firmata dall’illustratrice Grazia La Padula. Avete presente quell’effetto che provoca l’ascolto di un brano di Franco Battiato che parte mentre siete intenti a fare altro? Inizialmente le prime note, poi il testo. Parole che non hanno immediatamente senso si propagano nell’aria. E poi, lo sconvolgimento: quelle parole acquistano senso, ma non una sensatezza logica, bensì risposte che riempiono ogni spazio, ogni corpo e pietrificano, nell’ascolto assorto di quello che viene concesso come l’illuminazione di un uomo solitario.
La stessa cosa mi è successa con le pagine a fumetti della storia intitolata Beta, a pagina 33 di un numero interamente dedicato a Franco Battiato e costellato di interventi, interpretazioni e ricordi legati al cantautore.
La narrazione dell’artista scuote dal torpore come la musica di Battiato ha sempre fatto: è una memoria intervallata di momenti personali e strofe inconfondibili, a metà, a fornire quel senso di cui parlavo sopra, senza esporsi mai come soluzione. La poesia sperimentale si fonde con un incontro che ricorda quanto siamo tutti così connessi, in una struttura invisibile che ci rende simili, e persi.
Da Fetus e Gommalacca
Il primo album di Battiato in cui incappai fu Gommalacca (1998), erano gli esordi di MTV Italia e i videoclip erano più affascinati di qualsiasi telefilm. Shock in my Town era il singolo che passava in TV, ascetico, guerriero: la regia era diversa, la musica si mischiava al gesto. Non avevo mai visto nulla di simile.
Ho sentito (ho sentito, shock in my town) urla di furore
Di generazioni, senza più passato (Velvet Underground)
Di neo-primitivi
Rozzi cibernetici, signori degli anelli
Orgoglio dei manicomi
Venni a sapere che quel samurai dai tratti affilati era Franco Battiato e che, nel 1972, il suo primo album, Fetus, era il preferito di mio padre. Me lo feci regalare, per stabilire un legame, ma soprattutto per ritrovarmi, come con Gommalacca, investita dalla violenta poeticità dell’osservazione mistica esibita nei versi di una canzone. Ancora non avevo capito cosa mi stesse dicendo, e anche con Pollution (1972) non fu facile venirne a capo.
A L’arca di Noè e Sanremo
Gli anni del liceo erano quelli in cui le cover di Battiato si ballavano in discoteca, ed erano inascoltabili. Finché in gita un compagno di classe mi concesse una delle sue cuffiette, “Nessuno sa come sia l’originale”, mi disse. L’album era L’arca di Noè (1982), il brano Voglio vederti danzare. Recuperai in fretta tutta la discografia degli anni ’80 e ’90, sussurrando La stagione dell’amore con le lacrime agli occhi, imparando a memoria Summer on a Solitary Beach.
Un mio ex era solito dire di non voler ascoltare Battiato, perché troppo intellettuale. Ho sempre dissentito senza riuscire a replicare. Mi resi conto che Battiato non voleva assolutamente essere criptico, ma nella sua musica rifletteva la vita stessa, veicolando una risposta attraverso incomprensibili equazioni.
Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire
Le luci fanno ricordare
Le meccaniche celesti
Tra le parole, come nelle pagine di Grazia La Padula, ritrovo il senso e ritrovo me stessa e tutti gli altri. Il brivido di sentire la voce di Battiato allo scorso Sanremo (durante l’esibizione di Colapesce e Dimartino in un massacro in diretta di Povera Patria), mi ha fatto ricordare, al di là di tutto, le meccaniche celesti.
Grazie a LINUS e Grazia La Padula per la possibilità di usare queste splendide immagini per dare volto alle mie parole.