In attesa della cerimonia di premiazione ormai alle porte (che si terrà tra la notte di domenica 10 e la mattina di lunedì 11 marzo) concludiamo la nostra rubrica FRAMED ACADEMY con i nostri preferiti nella categoria Miglior regista. Scegliere non è mai facile, specialmente quest’anno, e il gusto personale si contamina inevitabilmente al valore oggettivo, ma in fondo è bello proprio per questo. Cinque grandi professionisti si fronteggiano per la statuetta, e qui trovate i nostri favoriti.
Scelto da Silvia Pezzopane:
Yorgos Lanthimos, con Poor Things
Yorgos raccontami una favola, che sia crudelmente contemporanea e lucidamente autoironica. Una storia che abbia un’eroina protagonista in cui immedesimarsi, forte e al tempo stesso ingenua, volitiva e un po’ bambina, e una serie di disperati grandangoli. Una storia nera come il fondo del fiume in cui suicidarsi, e acida, viola e verde, come i cieli di città che ho sempre pensato di conoscere, ma che qui si colorano di sfumature inedite.
Poor Things è la summa di tutti questi elementi, e a legarli c’è lo sguardo di un regista abituato a raccontare la femminilità, esperto nel sovrapporre la concretezza del piacere alla scoperta dell’individualità. Segue i passi di Bella Baxter trasmettendocene l’incertezza, e poi la leggerezza. Lo stile registico diventa un potente mezzo estetico, che sceglie quando togliere il colore, quando caricarne il peso. La favola raccontata da Lanthimos è un gioco di eccessi e bellezza visiva, avvolti nel ritmo sospeso di una donna alla ricerca della sua auto affermazione. L’occhio di Lanthimos si riflette in quelli spalancati della protagonista, della quale indaga la carne e l’anima, rendendola più che mai reale.
Leggi qui la recensione di Poor Things.
Scelto da Emanuele Bucci:
Justine Triet, con Anatomia di una caduta (Anatomie d’une chute)
L’unica donna candidata per la regia agli Oscar 2024, la francese Justine Triet con la Palma d’oro Anatomia di una caduta, è il nome che più ci piacerebbe vedere incoronato dall’Academy nella categoria. Per aver diretto (e co-sceneggiato) uno dei film più interessanti della stagione passata: un processo a una donna capace di farsi meditazione sui singoli (specie quelli meno incasellabili) e la società. Esplorando gli affetti e i rancori, la realtà e la finzione, l’assenza di una verità assoluta e la necessità, malgrado tutto, di scegliere.
Un risultato possibile grazie a uno sguardo cinematografico che valorizza dettagli, sfumature, ambiguità suggerite e dette da immagini in dialettica mai pacificata con le parole. Ma se gli Oscar sono un fatto politico (come ogni fatto culturale, del resto), la cineasta ha vinto anche in questo campo. Per il coraggio mostrato al momento di ritirare il massimo riconoscimento a Cannes lo scorso anno, lanciandosi in una critica senza reticenze al governo del suo stesso Paese, stigmatizzandone la repressione delle proteste contro la riforma pensionistica e le ricette neoliberiste di «mercificazione della cultura». Un gesto che ci riguarda tutti, in un’epoca dove troppo spesso manca negli artisti la forza e la maturità di schierarsi oltre i confini della finzione cinematografica. E chi lo fa rischia di pagarne le conseguenze, proprio come la regista, il cui film è stato clamorosamente escluso dalla Francia nella corsa a Miglior lungometraggio internazionale. Per essere fortunatamente risarcito con cinque nomination, tra cui quella che speriamo porti l’autrice a vincere.
Leggi qui la recensione di Anatomia di una caduta.
Scelto da Valeria Verbaro:
Jonathan Glazer, con The Zone of Interest
Un artista, artista vero, si vede nel momento in cui riesce a elaborare a suo modo temi già trattati, già saturi. Come Picasso rivoluziona i ritratti, Glazer strappa via qualsiasi altra rappresentazione comune dei nazisti, arrivando alla sintesi (forse) definitiva della banalità del male. Lo fa scegliendo un sistema multicamera, come un reality show in cui la quotidianità del “Grande fratello”, registrata da ogni angolazione con dieci macchine da presa sempre accese, atterrisce più di ogni scena madre e più di ogni pigiama a righe. Come se questo non fosse già sufficiente, Glazer costruisce due film, uno per gli occhi e uno per le orecchie. E i suoni terrorizzano e scavano nella pelle molto più delle immagini.
Leggi qui la recensione di The Zone of Interest.
Scelto da Rebecca Fulgosi:
Christopher Nolan, con Oppenheimer
Eterno escluso per l’Academy, Christopher Nolan è colui che più di tutti quest’anno si merita la statuetta per Miglior regia. Il suo Oppenheimer non è stato solo il fenomeno estivo della stagione cinematografica del 2023, ma un epico biopic che racconta una delle pagine più oscure della storia del secolo scorso. Nolan fonda la sua regia su primi piani penetranti, silenzi significativi che valgono più di mille parole e un montaggio da brividi che permette di percepire sulla propria pelle tutte le emozioni del suo protagonista. Fattori che uniti tra loro innalzano il lavoro di Nolan, così come l’intero lungometraggio la cui regia è sicuramente tra le sue migliori caratteristiche.
Scelto da Annamaria Martinisi:
Christopher Nolan, con Oppenheimer
Di lavori straordinari Nolan ne ha fatti, ma con Oppenheimer fa un passo ulteriore, ed è quello che varrebbe la statuetta agli Oscar di quest’anno. Da regista, ma anche da illusionista, riesce con estrema pulizia tecnica a smaterializzare l’idea che l’ordigno sia un “oggetto”; la vera bomba assume sembianze umane, diventa carne e coscienza. Ore di formidabile regia in cui il cineasta si scosta dalle sue ordinarie acrobazie temporali e restituisce la storia di Oppenheimer, il cui tempo, questa volta, è utilizzato in modo millimetrico fino allo scoppio della bomba. Nolan ci ha fatto vivere una delle esperienze visive e sonore più belle di sempre, cicatrizzandola sulla nostra pelle e incidendola nel nostro sangue.
Scelto da Giulia Losi:
Christopher Nolan, con Oppenheimer
Che Christopher Nolan sia un vero talento non è una novità. Ma bisogna ammettere che per Oppenheimer, sua ultima fatica, ha toccato l’apice. La gestione degli attori, la fotografia, la regia nello specifico, rendono un film storico e biografico, dalle tematiche complicate, facilmente fruibile. Nonostante tratti di fisica e storia, Oppenheimer è tutt’altro che noioso e riesce ad essere seguito da tutti, anche da chi non è esperto di determinati argomenti. Ed è questo lo scopo del cinema e dell’arte in generale: essere fruibile e trasmettere messaggi importanti. Nolan ci è riuscito alla grande.
Leggi qui la recensione di Oppenheimer.
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