Hanif Abdurraqib è un poeta, di professione: questa è la premessa essenziale da tener presente quando ci si avvicina a un libro come Finché non ci ammazzano. Due aree della letteratura reciprocamente estranee come la critica saggistica e la poesia, infatti, qui confluiscono inventando qualcosa di sorprendente e complesso.
Da un lato si delinea il racconto e una puntuale analisi della scena musicale statunitense più vicina ai gusti e all’esperienza dell’autore. Dall’altro, tra il ricordo di un concerto e quello di un album particolarmente caro, fa capolino l’abisso interiore di Abdurraquib. Un senso di dolore e lutto, personale e collettivo, che trova spazio solo nella parola scritta e nasce dall’esigenza di raccontare il proprio tempo.
La musica
Si parla di hip hop e rap, naturalmente, ma anche di artisti difficili da incasellare, come The Weeknd. Hanif Abdurraquib si presenta innanzitutto però come un grande appassionato di punk rock, genere musicale intrinsecamente trasgressivo, in grado di aprire una via di fuga: dalla quotidianità, dalla provincia dell’Ohio, e forse anche dal fardello costante della blackness. Il burden (fardello, appunto) della rappresentazione esula del tutto dai discorsi sui Fall Out Boys o sui Fleetwood Mac. E allo stesso tempo ci riporta dentro la questione razziale statunitense ogni volta che Abdurraquib ricorda di essere stato l’unico corpo nero in un mare di corpi bianchi pressati uno all’altro, nel calore reciproco del pogo sottopalco.
Lo racconta più volte, come un aneddoto apparentemente insignificante. Eppure è chiaro fin dal titolo che la materialità del corpo è parte essenziale del senso di Finché non ci ammazzano. La sensorialità tattile di quel suo corpo nello specifico è tanto rilevante quanto quella uditiva della musica che analizza e recensisce nei saggi.
Proprio nel modo di descrivere l’esperienza della musica, allora, questo libro assume una forma e un’essenza proprie e inedite. Non solo graficamente, come in alcuni capitoli scritti come fossero quasi versi liberi, ma nell’idea alla base. C’è un filo conduttore invisibile che infatti lega ogni saggio e lo riconduce sempre all’Io lirico dell’autore: al suo sentire, al suo emozionarsi e soprattutto al suo soffrire. In questo senso il saggio diventa poesia, e viceversa.
La poesia
Cosa significa, tuttavia, tutto ciò nel concreto? Significa che da una critica musicale può nascere un’introspezione tanto profonda da oltrepassare l’oggetto di riferimento (l’artista, l’album, il concerto) e arrivare a un’analisi della propria esperienza nel mondo. Nel caso di Abdurraquib è l’esperienza di un uomo nero, cresciuto in una famiglia musulmana in Ohio. Ma, andando a scavare ancora di più, è l’esperienza terrificante di un lutto incombente su di sé e sulla propria Gente, di fronte al disastro sociale che il 2016 è stato per la popolazione afroamericana (fra Trump e il picco delle tensioni razziali). Ed è proprio in questa sensazione onnipresente di perdita che tutto si regge, acquisendo significato.
Ma è l’autore stesso a spiegarlo a poche pagine dalla conclusione:
Per un poeta l’elegia è quasi una valuta. Molti di noi, soprattutto adesso, si rivolgono ai morti, gli chiedono di parlare di nuovo o si scusano per la vita che gli resta. Soprattutto per i poeti di colore e quelli queer e trans, l’elegia contemporanea spesso esiste quasi a metà strada tra un memoriale e una proclamazione di esistenza. Qualcosa che dice, Ci avete tolto così tanto, ma siamo ancora qui.
[Finché non ci ammazzano, Ed. Black Coffee, pag. 306. Traduzione di Federica Principi]
Un po’ di contesto
Finché non ci ammazzano si potrebbe dunque definire una raccolta di saggi, anche se è evidente che sia qualcosa di più della semplice somma delle sue parti. Alcuni di essi sono stati in precedenza pubblicati anche sul New York Times, per poi trovare spazio appunto in un unico volume. They Can’t Kill Us Until They Kill Us, questo il suo titolo originale, ha preso la sua forma definitiva nel 2017, dopo un anno traumatico per gli USA. Soprattutto per chi, con l’elezione di Trump si è sentito schiacciato ancor di più dal peso del suprematismo bianco dichiarato e violento.
A quattro anni di distanza, la casa editrice Black Coffee porta questa piccola grande testimonianza anche in Italia. Piccola perché è estremamente lirica, personale e per questo contingente. Grande perché in realtà fotografa una condizione molto più ampia e diffusa di quel che a primo impatto racconta.
Non a caso, Finché non ci ammazzano inaugura anche la nuova collana Black Coffee, Americana:
un coro di voci che inneggia alla complessità, la celebra, e prova a raccontare attraverso il sé la società nordamericana di oggi – non solo prendendo atto di una distanza, ma soprattutto affermando che è nell’essere diversi insieme che nasce la collettività
Dal sito di Edizioni Black Coffee
Un volume quindi programmatico, scelto come apripista anche per la capacità di sintetizzare l’obiettivo della collana stessa.
Ringraziamo Edizioni Black Coffee per averci dato l’opportunità di leggere questo testo. Rimandiamo qui alla pagina del sito della casa editrice dedicata a Finché non ci ammazzano.
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