Elvis di Baz Luhrmann è un biopic caotico e vorticoso, sputa in faccia con un montaggio serratissimo eventi, situazioni, emozioni, delusioni, con la velocità incauta di una mitragliatrice. In pieno stile Luhrmann, con la mano più calcata del solito, è un turbine di musica e avvolgente confusione: solo quando la giostra si arresta, su quello che è l’interprete più azzeccato per quel ruolo, capisco perché era necessario perdere la bussola nel circo di Baz, solo per poi ritrovarla nella timida nostalgia di quel volto scolpito dal make up e dai lustrini, ma sotto capace di restituire tutta la vita del Re, quella più silenziosa.
La sfida di Luhrmann
Baz Luhrmann torna a distanza di nove anni da Il grande Gatsby (The Great Gatsby, 2013), presenta Elvis il 25 maggio 2022, in anteprima mondiale Fuori Concorso al Festival di Cannes: un film biografico in cui la ricostruzione cinematografica si confonde con il gusto del musical di Broadway, l’arte dello spettacolo, quello vero, che inebria e stordisce, a discapito dell’intensità narrativa più che di quella scenografica.
Il suo film, della durata di oltre due ore e mezzo, brilla di momenti di pura estasi visiva (e visionaria), ma preme sotto al peso di una regia e di un montaggio al limite dell’esibizionismo, quella commovente verità. La stessa delle sovrapposizioni tra immagini di repertorio e ricostruzioni perfette nei minimi dettagli. La verità dell’infanzia del cantante originario del Mississippi, che leggeva fumetti e voleva diventare l’eroe della sua storia.
E dove la scelta del protagonista ricade su Austin Butler, che ne riempie gli abiti e le sensazioni, quella del coprotagonista (già, non è un film “solo” su Elvis) è forse la più sbagliata che potesse prendere. Purtroppo Elvis non si concentra solo su un uomo, ma gli fornisce una controparte invadente: il suo manager, il Colonnello Tom Parker, interpretato da Tom Hanks.
Narratore ambiguo di tutto il film, il Colonnello ci racconta di Elvis, sì, ma più che altro descrive il loro rapporto nell’arco di vent’anni, tra altissimi e bassissimi, diventando il giostraio Mangiafuoco nella vita del ragazzo che non sapeva di volere tutto quel successo. Coerente con la visione di meta-spettacolo tanto cara a Luhrmann, stona invece con la credibilità dell’opera stessa. Il trucco prostetico e i continui ammiccamenti da personaggio sopra le righe fanno rimuginare sull’obiettivo primario dell’impatto voluto dal regista.
Il suo punto di vista offusca la storia, rispettando quell’idea iniziale secondo cui dovesse essere lui il vero protagonista (evidentemente ammorbidita nella realizzazione finale).
Austin Butler e la voce che accende Elvis
Ma come in un’opera doppia, in Elvis quello spettacolo incarnato dal Colonnello, dal rumore e dall’intrattenimento pieno degli spettacoli stremanti e di casinò chiassosi, si scioglie di fronte all’interpretazione di Austin Butler. I suoi occhi, le sue labbra, la sua voce, sono l’anima di tutto il film. La poesia malinconica di una vita dove il bisogno di emergere e la paura di fallire si incontrano e si combattono fino all’epilogo, questa è ciò che l’attore ci dona dall’inizio alla fine (struggente).
Pronunciando ogni parola con uno strettissimo e ipnotico accento, provoca in chi guarda un’adesione totale alla sensualità di quella voce. Nelle performance del giovane Elvis la voce è proprio quella dell’attore, mentre nelle esibizioni da adulto è stata mixata a quella del vero Elvis.
Come durante i celebri concerti dove orde di donne adoranti perdevano la testa buttandosi ai suoi piedi, vi ritroverete a bocca aperta quasi sotto ipnosi in ogni sua singola esibizione. Fino alla conclusiva, dove la bellezza del Re si perde nei ricordi e nelle copertine delle riviste e rimane solo il ritmo nudo, di un addio straziante.
Il magnetismo di Butler è il diamante grezzo da scovare sotto alla struttura barocca, è il volto di quella musica nata dal rapporto con musicisti come B.B. King, dai cantanti afroamericani a cui è legato. Quel volto ridefinisce il film di Luhrmann e lo rende imperdibile.
In breve
Sotto allo spettacolo sfarzoso costruito da Luhrmann, così caotico da fagocitare anche la storia stessa, risplende l’interpretazione di un protagonista, Austin Butler, che da solo porta avanti il film, contrapponendosi al suo “compagno di avventure”, il Colonnello/Tom Hanks, la scelta più rischiosa che il regista potesse prendere. Vale la pena guardare Elvis per le esibizioni ipnotiche e per quel non detto fatto di depressione ed insoddisfazione, successo sfrenato e solitudine, raccontato da Butler attraverso la musica del Re.