Amarsi male ma salvarsi. L’adattamento cinematografico dell’Elegia americana di J.D. Vance
Elegia americana è, nel modo più esplicito possibile, il drammone confezionato per gli Oscar. È stato tagliato su misura per gli Academy Awards, o meglio, per una visione degli stessi fastidiosamente ancorata all’American Dream e al self-made man. Per capirlo basta considerare da dove nasce la storia e come è stata trasposta da Ron Howard e dalla sceneggiatrice Vanessa Taylor.
J.D. Vance, autore e protagonista di questo componimento autobiografico, pubblica Hillbilly Elegy nel 2016, anno fondamentale nella storia statunitense contemporanea. Abbiamo già affrontato la tematica del termine hillbilly, che indica una specifica popolazione degli Appalachi, bianca, molto povera, isolata e tendenzialmente considerata ignorante. È cioè quella fascia di popolazione a cui i politologi statunitensi attribuiscono la vittoria di Trump, nello stesso 2016.
Dove sono finiti gli Hillbilly in questa elegia americana?
Ebbene nulla di tutto ciò è presente nel film di Ron Howard, nonostante egli abbia adottato il titolo originale dell’opera. Solo sparute tracce degli Hillbilly compaiono nei dialoghi, nella pronuncia o al massimo nel rapporto con la morte (nella scena molto significativa di un funerale). Non si accenna minimamente alla portata politica alla base del racconto di J.D. Vance. O alla denuncia di un mancato stato assistenziale alle fasce più deboli, a cui per esempio apparteneva la stessa madre eroinomane del protagonista.
Tutto viene risolto e appiattitto nella lotta del singolo contro il mondo, di Davide/JD contro Golia/la società. Ossia nella storia di JD che, contro ogni previsione, si libera dallo stigma della povertà e dell’ignoranza e accede alla facoltà di legge di Yale, garantendosi un futuro radioso, nonostante le difficoltà. La vera essenza, tra l’altro collettiva (cosa che non si coglie abbastanza nel film) degli Hillbilly si respira solo nei titoli di coda, quando vediamo le fotografie e i video della reale famiglia Vance. E lì sì che fa venire i brividi.
Una trasposizione emotiva
Il fulcro dell’Elegia americana di Ron Howard non è quindi l’identità culturale della famiglia narrata quanto il legame che unisce i suoi componenti. L’aspetto emotivo. I Vance sono un gruppo altamente disfunzionale, tenuto insieme da un amore profondo ma malato, dipendente e violento. È un film molto duro da guardare, in questo senso, anche per l’eccellente interpretazione dei protagonisti: Amy Adams, Glenn Close e Gabriel Basso.
Amy Adams è Bev, la madre di JD Vance. Infermiera premurosa, esuberante e dolce, all’inizio. La morte del padre, a cui era fortemente legata, la trascina in un tunnel depressivo che sfocia nella dipendenza. Inizia con gli antidolorifici rubati in ospedale per poi finire nel buco nero nell’eroina, un po’ per autolesionismo e un po’ per stordire la parte più oscura di sé. Con le droghe, tuttavia, è proprio quella parte a fuoriuscire prepotentemente, trasformandola in una furia per cui anche il suo stesso figlio prova terrore. Lascia sgomenti, per esempio, la scena in cui improvvisamente Bev si fionda contro JD, per una parola di troppo, e perde irrimediabilmente il controllo delle proprie azioni ed emozioni.
Glenn Close è la nonna, Mamaw, come la chiama JD. Una donna forte e risoluta. Severa ma anche molto protettiva. È lei la vera Hillbilly fra tutti i personaggi, nonostante si sia allontanata volontariamente da quella realtà così chiusa. Mamaw è il punto di riferimento di JD, la sua ancora di salvezza quando la madre non è più in grado di occuparsi di lui. Anche lei, tuttavia, molto più di Bev, ha atteggiamenti particolari ed è in essi che si radica la matrice violenta del legame nella famiglia Vance.
Gabriel Basso è il JD adulto, anche se gran parte delle scene più intense si collocano nella sua adolescenza, con Owen Asztalos nello stesso ruolo. Entrambi gli attori, seppur in età diverse, hanno la stessa innocenza nello sguardo, in grado di commuovere anche i cuori più freddi. JD è un figlio devoto, innanzitutto, e per questo in grado di suscitare l’empatia dello spettatore quando si trova intrappolato e soffocato dalla condizione della madre.
Quella stessa sensazione di soffocamento e claustrofobia la prova anche il pubblico, ogni volta che appunto viene messo in scena l’egoismo della dipendenza. Permettetemi questo termine, anche se forse non il più corretto possibile per descrivere questa dolorosa condizione. Egoismo inteso come esatto opposto dell’amore. Per quanto l’attaccamento di Bev per i suoi figli sia una forma profonda di affetto, esso cessa di essere amore nel momento in cui lei non riesce fisiologicamente ad anteporre il loro benessere al proprio bisogno. La dipendenza occupa e infesta la mente di Bev, togliendo spazio a qualsiasi altro pensiero. Togliendo spazio al vero amore.
È per questo, forse, che il momento più emozionante in assoluto coincide con la scoperta di un’altra vita possibile e quindi con il rilascio di tutta la tensione accumulata fino a questo momento nel film.
L’amore vero che esiste altrove
Nel lowpoint, il momento più “basso” del film, in cui tutto sembra andare nel verso sbagliato, JD decide improvvisamente di cambiare marcia. La sua identità, fino a questo momento dipendente in maniera dolorosa dalla madre, si trasforma in quello che potrebbe essere un brusco e disperato cambio di intenti in sceneggiatura o un grande colpo di scena finale. Scegliete voi.
Il punto è che, dopo aver creduto per oltre due ore che JD non potesse conoscere (a causa del suo passato) la vera forma e il vero significato dell’amore, scopriamo invece che l’ha sempre avuto accanto. E non è la madre. Non è la nonna. È l’unica persona che è rimasta in disparte, facendoci quasi dimenticare della sua esistenza e che invece dimostra che l’Amore, quello che ti salva da ogni cosa, sa prima dare e poi ricevere. Senza eccezioni e senza condizioni.