Elaha è l’opera prima di Milena Aboyan; già presentata in anteprima al Festival di Berlino 2023 nella sezione Perspektive Deutsches Kino, è stata proiettata in occasione della quarta edizione del Festival del Cinema Tedesco a Roma.
Guardando il film di Aboyan non si direbbe che si tratti di un esordio: la capacità di racconto è matura e non ci sono incertezze nell’uso del mezzo, con il quale la regista presenta l’intimo dramma di Elaha, una giovane donna curdo-tedesca di ventidue anni divisa tra tradizione e desiderio, tra le usanze dei suoi genitori e la vita emancipata che vorrebbe.
Promessa sposa ma non più vergine, è alla disperata ricerca di una soluzione, e di un nuovo imene che non la faccia sentire un disonore per chi ama.
Divisa a metà
Nella memoria risuona La sposa turca (Gegen die Wand, 2004) di Fatih Akın; si ritrova in Elaha una storia simile seppur meno estrema, ma non priva di polsi tagliati e controsensi pericolosi, derivati di una cultura che limita il femminile su molteplici fronti. Elaha non è in fuga e non vuole sposarsi per fuggire da casa dei genitori come Sibel, è però alla ricerca di un equilibrio tra ciò che le è stato insegnato, in cui crede e che rispetta, e nella libertà a portata di mano tanto auspicata dal paese occidentale in cui la sua comunità vive, la Germania.
A distanza di vent’anni da quel film, la protagonista di Elaha ha fatto suoi molti dei traguardi che la Sibel di Fatih Akin (regista nato da genitori turchi emigrati in Germania) si era dovuta conquistare con sangue e sofferenza, ma la sua indipendenza è tale solo in apparenza. E quindi nulla o poco più è cambiato.
In trappola in schemi prestabiliti (da un’ottica prevalentemente patriarcale e maschilista), lei e le sue amiche vivono sottovoce per non attirare l’attenzione, hanno paura dei fratelli, dei padri, e soffrono di un’effettiva mancanza di libertà. Elaha, promessa sposa ad un ragazzo come lei tristemente prigioniero delle convenzioni sul maschile e sul femminile, non è però più vergine, e la possibilità di disonorare la sua famiglia la ossessiona portandola a sprofondare in una spasmodica ricerca di salvezza, un nuovo imene, un trucco con cui ingannare il futuro sposo.
La sua vicenda ci porta a contatto con una realtà di cui è vittima una donna contemporanea, che studia e lavora, ma che è costretta a pagare, fisicamente e psicologicamente, per far ricostruire da un’equipe di chirurghi un pezzetto di pelle, un simbolo di purezza; praticamente l’unico valore che le viene attribuito e con il quale può assicurarsi la salvezza.
Il corpo, il sesso, la scelta
Da una parte l’uomo che deve sposare, dall’altra l’avventura romantica con un altro, conosciuto durante il suo corso di formazione. Il primo è un surrogato dei suoi genitori, si prepara a prendersi cura di lei, e dietro a questo nasconde ottusità e aggressività, il secondo non ha pretese su Elaha, e con lui la ragazza riesce a sentirsi libera di scegliere, ma è come se provenisse da un altro mondo, uno che i suoi genitori non capirebbero.
Il corpo della protagonista sembra un’oggetto di proprietà altrui sulla quale la ragazza possiede solo una percentuale di potere decisionale, e quel poco la fa sentire in colpa, sbagliata. L’intero film ruota attorno a questo territorio prigioniero di dogmi, dove il piacere si traduce in rimorso, e le contraddizioni nella vita di Elaha si scontrano in un conflitto che solo lei potrà far cessare, violentemente, volitivamente.
Ne attraversiamo la disperazione, il bisogno di respirare oltre la comunità con le sue regole, la paura di dover fare i conti con una scelta che dovrebbe essere spontanea quando in realtà la spinge a rimettere in discussione tutto, più che mai la sua libertà sessuale.
In breve
Il film di Milena Aboyan perpetra l’attenzione su un orizzonte di emancipazione femminile che già prima di lei era stato affrontato in modo simile da registi come Fatih Akın ne La sposa turca (2004) o come dal russo Kantemir Balagov in Tesnota (2017).
L’espressione libera della propria sessualità diventa per le protagoniste, in primis Elaha, una malattia da curare, un urlo da soffocare, ma anche l’unico strumento per ribellarsi. Questa tipologia di narrazione porta al cinema l’attualità dei soprusi e del fondamentalismo, che si riversa per spezzare la vita di generazioni di donne in lotta contro il sistema. E se questa è l’opera prima di una regista al suo debutto cinematografico, sarà entusiasmante di scoprire il resto.