Edipo Re
Edipo Re a Siracusa. Foto di Tommaso Le Pera

Al Teatro antico di Siracusa, un’ora prima del tramonto, gli spettatori dell’Edipo re diretto da Robert Carsen colmano le gradinate. La rappresentazione deve ancora iniziare. Alla platea si contrappone una seconda imponente scalinata: è la scenografia di Radu Boruzescu. Durante la 57esima stagione del Teatro greco, tutti noi, pubblico, chiediamo udienza al palazzo di Tebe. Ma il palazzo non c’è, è un concetto, un simbolo invisibile posto in cima all’impianto scenico.

Edipo e il popolo

Con l’incedere dei tamburi, il coro, protagonista, entra in scena. È un corteo nero e senza fine, mascherato con protezioni anticovid in tinta, che procede funereo e deposita drappi scuri ai piedi del palazzo. Offre le spalle al pubblico e insieme a esso invoca, in silenzio, l’apparizione di Edipo. Mentre in platea suona il telefono di uno spettatore, Edipo, Giuseppe Sartori, discende dalla scalinata in completo moderno.

La sua parlata è limpida; a dispetto della sicurezza dei suoi movimenti, il tono non è autorevole. L’inconscio di Edipo, forse, si manifesta in questo: l’interpretazione di Sartori è quella di un uomo contemporaneo, salito al potere nell’epoca della democrazia fluida; questi dialoga con il coro, entra ed esce dalla massa cittadina. Da uomo, è destinato a diventare un “cristo” come tanti.

Coreografia e partecipazione

La maledizione ha colpito Tebe. La pestilenza è già annunciata dalla folla nera, questo popolo guidato dal capocoro Rosario Tedesco e dalla “corifea” Elena Polic Greco: questo corpo civico, addolorato nel passo e nel tono, entra ed esce dalla scena, muove con ordine e poi si disperde furiosamente a comando. I drappi, poi, vengono ridisposti a cerchio al centro del palco, così la pestilenza assume la forma di un vortice – proprio al centro del vortice si erge Tiresia, Graziano Piazza, per rispondere alle angosce dei personaggi. È sempre il coro, quindi, a mettere in guardia Edipo e gli spettatori. È la voce di Tebe e la sua coscienza cupa, l’orgoglio civile della città e l’ombra che si addensa nella sua piazza.

Di volta in volta, si rivolge al potere oppure al pubblico; in questa seconda circostanza, si dispone nell’orchestra, a metà strada tra palazzo e platea, cerca la partecipazione di quest’ultima rispetto alle sorti della città. È come se volesse estendere agli spettatori-cittadini la responsabilità pubblica che sente gravare su di sé. I membri del coro, tutti insieme, formano una massa liquida e dinamica, a tratti solenne e a tratti irrequieta. Del loro dinamismo non si è mai sazi, si vorrebbe che a ogni coreografia ne seguisse un’altra.

Questi settantanove attori, che impersonano lo spirito di Tebe, piangono all’unisono per le sorti della città, appellano il sovrano, chiedono verità e, quando l’hanno ottenuta, esplodono in una calca di rabbia disperata, in uno sciamare polifonico che pone sempre la stessa domanda, ancora e ancora, domanda che infine si deposita e condensa nella sola voce del capocoro. «Chi è l’uomo?», chi è responsabile della corruzione in città?

Linguaggio e scena

Il testo, anziché insistere sul mistero dell’uccisione di Laio, sulla verità ignobile, sia essa celata o rimossa, cambia forma e viene ricostruito sulla scala di Boruzescu. Lo stesso scenografo ha scritto: «C’è una geografia in questa scala, l’ascesa sociale, simbolo del potere, il senso discendente, la perdita del potere evoca il cammino interiore verso il mondo invisibile dell’inconscio, simbolo del percorso della vita. Ascesa e decadenza del potere, in rapporto con la pubblica piazza dove il coro-popolo diventa la nostra coscienza». Quindi alla contrapposizione scala-palco corrispondono i rapporti palazzo-piazza, potere-cittadinanza, colpa-pietà, verità-rimosso.

Quando il coro, finalmente, si dispone prima a croce e poi a colonna lungo le scale, mimando con le mani in sincrono – quasi un flash mob, se si vuole – il popolo ha preso possesso del palazzo e gli spettatori sono coinvolti nel dramma cittadino. Mentre le premesse indicibili al governo di Edipo si svelano, i cittadini raggiungono una consapevolezza civile e rivendicano i luoghi del potere. Ma il coro, per quanto angosciato, non condanna il sovrano ma lo compatisce; quando si apprende che Polibo, il presunto padre di Edipo, è morto naturalmente, il sovrano viene scagionato e i tebani brindano a lui e lo portano in trionfo. I cittadini, così come il coro nella tragedia antica, provano pietà e non rivalsa nei confronti dell’autorità.

Edipo re a Siracusa. Foto di Tommaso Le Pera.

Ambiente e rappresentazione

Al tramonto del sole, le luci sceniche di Giuseppe Di Iorio (e del regista) entrano in gioco: quando Creonte, Paolo Mazzarelli, e poi Edipo discendono da palazzo per accusarsi reciprocamente, i loro corpi proiettano lunghissime ombre a destra e a sinistra, come due ali tremule che planano sulla città di Tebe. Interrompe il loro scontro Giocasta, Maddalena Crippa, che non a caso compare solo al crepuscolo. Su di lei, madre che non riconosce la propria prole dopo averla mandata a morte, cadono le colpe più grandi. La sua figura, quando non è avvolta negli abbracci del figlio-sposo, è isolata rispetto alla scena: il vuoto intorno a lei è sintomo delle sue responsabilità.

L’incedere delle ombre annuncia la soluzione del mistero. Non c’è un vero e proprio climax, non è necessario. La musica cupa e vibrante di Cosmin Nicolae accende soltanto le scene di particolare tensione, tensione legata all’indagine pubblica e privata del personaggio eponimo; i suoni, ha dichiarato il compositore, sono ispirati all’Edipo re di Pier Paolo Pasolini e alla ricerca che portò il regista-poeta a scoprire la musica popolare romena. Qualche spettatore – il tipo di spettatore che non chiacchiera con il vicino – risponde a queste note di enfasi sonora, sussulta e – anche se distratto o impegnato nella chat del telefono o a far video – s’immedesima nella sorte del primo cittadino. Questo rapporto tra pubblico e opera è reso possibile dal testo stesso, solenne ma non poetico; grazie alla traduzione di Francesco Morosi e alla drammaturgia di Ian Burton, tutti i cittadini possono comprenderlo.

La conclusione

Mentre il dramma si avvicina al suo epilogo, entrambe le scale, quella di scena e quella della platea, metaforicamente, si abbassano, riducono il loro angolo, ponendo potenti, cittadini e spettatori allo stesso livello. Edipo, ormai regicida, patricida e colpevole d’incesto, dopo essersi accecato con gli spilli della veste materna, nudo e coperto di sangue, rotola giù dalle scale palatine, percorrendo un Golgota a rovescio. Ottenuto l’esilio, abbandona il palco e risale lungo la gradinata opposta. Edipo, così, già personaggio empio, cammina tra il pubblico – quel pubblico eterogeneo, impaziente, e a volte molesto che ha riempito il teatro – e ne conquista la solidarietà. Edipo, infine, appartiene alla gente ed è per questa ragione, forse, che a rappresentazione conclusa gli attori vengono applauditi per dieci minuti – e Sartori, Piazza e Crippa, in particolare, salutati come star.

Applausi, urla di apprezzamento e fischi trasformano l’atmosfera del Teatro antico in clima da stadio. Per quanto l’insofferenza del pubblico e il suo malcostume, nei teatri siciliani, negli ultimi anni, stiano peggiorando, l’opera diretta da Robert Carsen raggiunge e conquista un pubblico vasto. E questo, tra i tanti, è il merito più importante.

Edipo re a Siracusa. Foto di Tommaso Le Pera.

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Qui il sito ufficiale dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico per ulteriori informazioni sulla stagione teatrale.