Emoziona e non poco la foto postata da Travon Free, il giorno dopo aver vinto l’Oscar al miglior cortometraggio con Due Estranei (Two Distant Strangers). È un semplice post-it rosso, all’angolo della scrivania. Su di esso si legge: “Questo posto è riservato all’Oscar”, scritto nove mesi prima della grande notte, quando Free decise di raccontare questa storia.
Emoziona, dicevo, non per l’ambizione, né tanto meno per la speranza di vincere, ma per la consapevolezza di voler “elevare i nomi e le storie di tante storie black”, proprio nell’anno in cui la causa di Black Lives Matter è stata abbracciata dal maggior numero di persone al mondo, dopo oltre 7 anni di vita. Questo è il sito ufficiale del movimento, se volete dare un’occhiata.
Tutto nasce dalla tragica morte, o meglio dall’omicidio, di George Floyd, ma non racconta la sua storia né si limita a essa. Due Estranei è un compendio, una riflessione collettiva e un atto di resistenza, tutto insieme. Il corto, diretto da Free stesso insieme a Martin Desmond Roe, è disponibile su Netflix in tutti i Paesi della piattaforma, Italia compresa.
Due Estranei, la struttura del corto
Si può definire chiaramente un cortometraggio, anche se la sua durata di 32 minuti sfiora il mediometraggio. Due Estranei infatti ha una struttura complessa, che non si gioca solo su due atti e un finale a sorpresa, come invece le forme filmiche ancor più brevi.
Innanzitutto è un corto basato su un loop temporale: il protagonista Carter (Joey Bada$$) si sveglia accanto a una ragazza conosciuta la sera prima, chiacchiera con lei, le parla del suo cane – motivo per cui vuole affrettarsi a tornare a casa – arriva in strada e viene ucciso dall’agente Merk.
Il primo ciclo di questa ripetizione infinita avviene nei primissimi minuti, tanto da disorientare il pubblico, improvvisamente privato del suo protagonista. Inoltre, proprio questo primo omicidio avviene esattamente come sono avvenuti quelli di Eric Garner e George Floyd. Carter, immobilizzato a forza, cioè, muore soffocato, sospirando I can’t breathe.
Cos’altro può succedere dopo aver visto questo? Beh, può succedere altre cento volte almeno, ogni volta in modo diverso o per un motivo diverso. Appena Carter si rende conto di essere intrappolato in un ciclo di morte continua, infatti, prova a cambiare i gesti di quella mattina. Prova a memorizzare ogni passo, ogni volto, ogni mossa, per poi cambiare l’esito del suo destino, invano.
Prova persino a non scendere proprio in strada e a rimanere il più possibile a casa di Perri, la ragazza conosciuta appena la sera prima. Non è certo una questione di luogo, o di persone sbagliate al momento sbagliato, però, sembra dirci il film. E infatti la polizia in tenuta d’assalto arriva a ucciderlo anche dentro le mura di casa, ricordando così la morte di Breonna Taylor e di chi, come lei, è stato aggredito direttamente nella propria abitazione.
Carter conta appunto 99 tentativi prima di provare a parlare direttamente con l’agente Merk (Andrew Howard). Ed è qui che la struttura si fa ancora più complessa. Laddove potrebbe esserci un lieto fine, infatti, il film decide di lanciare un messaggio molto, molto diverso.
In quello che potremmo definire il “secondo atto” Carter spiega ben due volte l’assurda vicenda al poliziotto di quartiere. Ed è così ironico e così frustante al tempo stesso il fatto che la prima volta riesca a convincerlo senza problemi e finalmente andare via, per poi essere ucciso da un altro poliziotto, appena svoltato l’angolo. La seconda volta sembra quella buona. In un guizzo brillante della sceneggiatura, Carter chiede semplicemente un passaggio a casa. E sulla veduta aerea dei tetti di New York, sui cui si leggono chiaramente i nomi di George Floyd, Breonna Taylor, Tamir Rice e la scritta Say Their Names, questo sarebbe un ottimo finale.
Peccato che sia troppo bello per essere vero. Il dialogo fra le due parti, che avviene subito dopo, proprio dentro l’auto della polizia, è l’auspicio e la speranza di un mondo più civile, meno violento e meno razzista, ma lontano dalla realtà. Un mondo sospeso, così come il dialogo stesso, che paradossalmente incrementa la tensione nel pubblico incredulo. Perché mai assistiamo a questa scena dopo quella che sarebbe stata la chiusa perfetta? Perché non stiamo guardando una favola e il lieto fine non c’è.
Quello che c’è, al contrario, è la forza di rimettersi in piedi, ogni giorno immaginando che andrà a finire sempre allo stesso modo. E trovare ogni giorno la motivazione per cambiare l’esito di un destino che gli altri hanno scritto.
Nel contrasto dei colori brillanti e dell’estetica pop del film, Travon Free e Martin Desmond Roe lanciano dunque un forte messaggio di resistenza. E lo sguardo in macchina di Carter ci consegna il vero finale, quello di una lotta ancora lontana dalla fine, ma più forte che mai.