Documentari Amazon Original - Credits: Prime Video

Mese dopo mese, il catalogo di Prime Video si arricchisce di documentari Amazon Original. Opere monografiche in cui i volti celebri della contemporaneità si raccontano o si lasciano raccontare. L’ultimo annunciato è quello su Mary J. Blige (25 giugno) artista icona dell’hip hop statunitense. Ma l’elenco è molto lungo e variegato. Ogni film, infatti, ha una sua chiave e un suo scopo preciso.

Ne abbiamo scelti quattro, molto diversi tra loro, per evidenziare altrettanti modi di costruire la biografia di un personaggio di fronte alla macchina da presa. E per dare spazio, di conseguenza, a questo filone nascosto ma molto interessante della piattaforma Prime Video.

All I Know So Far – P!nk

Il documentario su P!nk, al secolo Alecia Moore, su Prime da fine maggio è uno dei più recenti, nonché dei più interessanti sulla piattaforma. Innanzitutto perché è diretto da Michael Gracey, già alla regia di The Greatest Showman (2018), il musical con Hugh Jackman. La particolarità del film è già il suo strettissimo legame con la musica. Si potrebbe persino definire parzialmente un film-concerto, in cui la musica dal vivo, soprattutto nella seconda metà, fa da padrona.

Perché comunque scegliere P!nk come soggetto? Perché può sembrare una star superata in Italia ma l’icona pop/rock degli anni Duemila è ancora apprezzatissima oltreoceano. Tanto da aver ricevuto da poco il Billboard Icon Award. Inoltre l’artista non è nuova a questo tipo di promozione commerciale per album e tour. Già in precedenza ha distribuito DVD delle sue tournée, come quella per l’album Try This (realizzato nel 2004 e diffuso nel 2006).

Il terzo e forse più semplice motivo, tuttavia, è che P!nk è davvero un personaggio e un’artista interessante. Anche chi non l’ha mai seguita si fa ammaliare dal ritratto che ne fa Gracey in questo film. Prima di tutto perché sul palco è in grado di sviluppare uno show spettacolare. P!nk è infatti una ginnasta, ancor prima di essere una cantante. Nel tempo ha imparato a integrare alcune acrobazie (degne davvero dei salti nel vuoto di Zendaya in The Greatest Showman) durante le esibizioni live. Sì, avete capito bene: canta mentre volteggia sul pubblico, dando prova anche di una potenza fisica non indifferente. Già questo varrebbe un biglietto per un suo concerto. Se poi si aggiunge anche la tenerezza e la simpatia con cui affronta la vita nel backstage, il film diventa un modo per trascorrere un’ora e mezza con il sorriso.

Dovendo definire All I Know So Far in quanto documentario è sicuramente un lavoro mirato a costruire una certa immagine della protagonista. P!nk vuole che il ritratto di sé sia quello di un’artista e di una madre, una performer gitana che cerca di crescere insieme ai suoi due figli e al (celebre) marito. La rappresentazione della sua famiglia è infatti il nucleo attorno a cui ruota tutto ciò che non è musica dal vivo. Anche perché la maternità e l’approccio ad essa è uno degli argomenti su cui P!nk si è maggiormente espressa anche sui social network negli ultimi dieci anni.

La guida che lei impone al racconto, tuttavia, è ben architettata per entrare in sintonia con la visione del regista. A Gracey, in particolare, viene lasciato molto spazio nella gestione dei momenti musicali e performativi. Ed è lì che anche il film dà il meglio di sé.

Un caso dalle premesse simili ma dal risultato opposto è, invece, il documentario su Chiara Ferragni.

Chiara Ferragni Unposted

Elisa Amoruso entra nel progetto documentario su Chiara Ferragni da documentarista già conosciuta e molto attiva nel campo del femminile. Lo scopo implicito di Chiara Ferragni Unposted, infatti, è quello di mostrare l’ascesa professionale dell’imprenditrice digitale: dalla pagina su Flickr al case study di Harvard. Una donna che si è fatta da sé e che, tra incoscienza e coraggio ha costruito un impero.

La sfida, non del tutto riuscita, del documentario è quella di mostrare qualcosa di unposted, cioè non ancora detto su Chiara Ferragni. Ciò che rende difficile questo obiettivo è proprio il controllo evidente che la protagonista esercita sulla sua immagine, anche quando sembra non farlo. Chiara Ferragni ha compiuto la scelta esplicita di esporsi quasi totalmente nella sua vita privata e pubblica. Questo significa che se abbiamo visto, per fare solo un esempio, il video virale in cui lei urta la testa contro la porta del suo store milanese è perché lei ha deciso di farcelo vedere. Ha deciso di mostrarsi in un certo modo.

Partendo da qui, il ruolo di Elisa Amoruso come regista non può che essere limitato. Chiara Ferragni, così come viene definita anche dal documentario stesso, è una gigantesca pagina pubblicitaria fatta persona. Il film non può aggiungere niente di diverso dalle aspettative, anzi deve solo rafforzarle. Questo non vuol dire necessariamente che non abbia avuto senso realizzarlo o che non abbia senso guardarlo. Basta sapere cosa si guarda.

Un rischio decisamente maggiore, al contrario, è quello preso da Tiziano Ferro nel documentario di Beppe Tufarulo.

Ferro

Ne abbiamo già parlato in dettaglio a ridosso dell’uscita sulla piattaforma (leggete qui l’articolo), ma Ferro è propriamente il documentario con le grandi rivelazioni. Un tipo di film che funziona solo se il soggetto protagonista, nel tempo, è stato sempre restio alla condivisione di momenti privati. Sì certo, direte, Tiziano Ferro ha fatto coming out su Vanity Fair e ci ha scritto pure un libro. Ma non è di questo che parla il documentario.

C’è tutta una parte della vita del celebre cantante (e autore) che è rimasta a lungo lontana dai riflettori. Lui stesso ha lasciato l’Italia molti anni fa, vivendo a Londra, in Messico e poi a Los Angeles. Nei periodi tra un disco e l’altro, tra un tour e l’altro, Ferro spariva e di lui si sapeva solo ciò che i suoi uffici stampa lasciavano trapelare. Con il documentario di Tufarulo, invece, sceglie di prendere la parola e di raccontare un percorso di riabilitazione dall’alcolismo di cui non solo non si sapeva nulla, ma che soprattutto va interpretato in chiave terapeutica. Come se parlarne aiutasse a esorcizzarlo. E infatti l’impostazione registica del film è quasi esclusivamente quella dell’intervista-confessione.

In questo caso il protagonista ha il pieno controllo su ciò che dice e che decide di condividere con il pubblico. A renderlo interessante e a tratti commovente, però, è la capacità della regia di introdursi proprio dove c’è il maggior margine di sorpresa, ossia nei sottintesi. Rafforzando cioè con le immagini e il montaggio ciò che Ferro accenna con le parole.

Mi chiamo Francesco Totti

Last but not the least, rimane il Miglior documentario ai David di Donatello 2021: Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli. Non fatevi ingannare dal soggetto, non sono romana né tifosa, eppure mi è piaciuto lo stesso. È il racconto dell’eroe, a prescindere da chi lo interpreta. Origini, fatica, successo, fallimenti, riconquiste e grande addio: tutto nella storia pubblica e privata di questa vera e propria icona nazionale.

Il primo aspetto che si nota, a differenza dei precedenti, è che proprio la scrittura dell’arco narrativo. Infascelli vuole che sia il Capitano a raccontare la sua storia, ma è lui a decidere l’ordine degli eventi. E il tutto deve e va a culminare nella commovente sera del 28 maggio 2017, il suo commiato. Tutto il film è pensato in funzione dell’addio: in funzione di una celebrazione che però riesce a non essere autoreferenzialità.

Mi chiamo Francesco Totti - Alex Infascelli (2020) - Credits: Prime Video
Mi chiamo Francesco Totti – Alex Infascelli (2020) – Credits: Prime Video

In altri termini la presenza di Totti è solo in apparenza dominante, ma in realtà si lascia raccontare dalle immagini, limitandosi a dei commenti a margine. Il suo volto nel “tempo presente” è sostituito dalla voce fuori campo, in un ipotetico dialogo con Infascelli in sala montaggio. Scherza, sia con noi sia con il regista. Finge di mandare un replay o di riavvolgere il nastro per riguardare uno storico gol. In realtà si percepisce anche il suo imbarazzo nell’essere oggetto di uno sguardo esterno e non soggetto attivo di una narrazione. Ed è forse questa la tipologia di documentario che trasmette di più al pubblico la sensazione di immediatezza e sincerità, pur essendo tutto rigorosamente scritto e studiato. Probabilmente anche per questo è uno dei migliori del filone, finora, su Prime Video.

Voi ne avete già guardato almeno uno fra quelli selezionati?

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