Dear White People è uno dei prodotti visivamente e culturalmente più interessanti fra gli Originali Netflix. Il creatore e showrunner Justin Simien ha tratto l’intera prima stagione dalla sua omonima opera prima del 2014, per poi svilupparla in altre tre stagioni. La quarta e ultima è infatti di prossima uscita.
Potrebbe sembrare una serie ostile, per l’elevata dose di sarcasmo che la caratterizza, ma proprio per questo è unica nel suo genere. Certo, per apprezzarla è necessaria almeno un po’ di autoironia, sono tanti infatti gli spettatori che si sono sentiti (inutilmente) offesi.
Ogni stagione, o Volume, è composta da dieci Capitoli. Sistematicamente quelli centrali sono i più complessi o interessanti dal punto di vista stilistico. Uno dei migliori in assoluto è appunto il Capitolo V del Primo Volume, ossia l’episodio 1×05.
Capitolo V, la storia di Reggie
Non tutto quello che affrontiamo si può cambiare, ma niente può cambiare finché non lo affrontiamo.
Inizia così il Capitolo V, con questa citazione di James Baldwin che introduce la puntata di presentazione di Reggie Green (Marque Richardson). Ogni personaggio, a rotazione, ha infatti una puntata dedicata interamente al suo punto di vista. Reggie è il radicale del gruppo, figlio di militanti, militante egli stesso all’interno del campus in cui è ambientata la serie. La puntata assume quindi il suo stesso piglio, riflettendolo in tutto e per tutto.
Come suggerisce la misteriosa voce narrante (di Giancarlo Esposito), Reggie vuole riaccendere la rivoluzione, ma ancora non sa che sarà quest’ultima a trovare lui, facendone un simbolo. Quasi preparando il pubblico alla scena finale, Reggie è costantemente preso di mira in questo episodio per le sue idee, per la sua rabbia costante che a volte lo rende troppo cupo anche in situazioni distese e amichevoli.
Sarcasmo e intelligenza, per una nuova rappresentazione
Tutta la puntata è infatti costellata, a livello dei contenuti e dei dialoghi di battute al veleno, contro la società (e il razzismo) statunitense. Tra le più evidenti, quelle riguardo la colonizzazione dei corpi e, ovviamente, le politiche della rappresentazione nel cinema. È quest’ultima che cattura decisamente l’attenzione, soprattutto per il modo in cui è girata e pensata.
Un carrello a precedere e il gruppo di personaggi che avanza, guardandoci dritto negli occhi. Ognuno aggiunge un pezzo a quest’arringa, ma le parole che colpiscono di più sono quelle rivolte contro un famoso regista. Joelle infatti afferma: Come Tarantino. Solo perché fa uccidere a Jamie Foxx qualche razzista in Django, crede di poter ostentare qualsiasi stereotipo sui neri. Si rivolge al pubblico, alle abitudini della visione e alla pigrizia culturale di chi scambia il rispetto di un’identità collettiva per una passeggera ossessione per il politically correct.
Il fulcro dell’episodio, e della seconda metà della stagione, però deve ancora arrivare. Come accennato, Reggie è destinato a diventare un simbolo della lotta e non è difficile immaginare il perché. Proprio quando l’atmosfera sembra più distesa e rilassata, basta letteralmente una parola a scaldare gli animi. E in un attimo Reggie si ritrova la pistola della guardia armata del campus puntata al petto. Tutta la sua corazza crolla, come è anche giusto che sia, di fronte a un uomo piccolo, goffo e insignificante che in quel momento tiene in pugno la sua vita. Rimane sotto choc, immobilizzato.
Noi non possiamo che trattenere il respiro insieme a lui e rilasciarlo nell’ultima, stupenda scena. Torniamo nella stanza di Reggie, come all’inizio e la geometria simmetrica è la stessa. Questa volta però è turbata da un pianto disperato e impotente che è rabbia, è paura, è stanchezza. Sulle note di Love & Hate di Michael Kiwanuka, sempre più alte fino alla chiusura a nero, spunta il nome di Barry Jenkins, regista speciale dell’episodio. Ed è tutto a un tratto più chiaro perché questa puntata ti fa tremare e ti rimarrà sotto pelle per molto, molto tempo. È opera di uno dei più interessanti autori del cinema afroamericano contemporaneo (si pensi solo a Moonlight). È un grande sguardo d’autore prestato per poco più di venti minuti al pubblico onnivoro di Netflix, in un corto circuito che spiazza e rende inermi, emergendo da tutto il resto.