Dal libro al concept album, la genesi di Storia di un impiegato di Fabrizio De André.

È il 1971 e nelle librerie appare uno strano romanzo che racconta le vicende di un impiegato pubblico. Quattro anni dopo, nel 1975, grazie alla sua trasposizione cinematografica, il suo nome e quello del suo autore entrano nella cultura popolare italiana: sono Fantozzi e Paolo Villaggio.

La chiave di un simile successo, probabilmente, è la chiave stessa del successo della Commedia dell’Arte: come Arlecchino o Pulcinella, Fantozzi incarna l’uomo medio. Ne porta all’eccesso i difetti, per attrarre il pubblico all’immedesimazione e spingerlo poi alla repulsione, concedendogli il dono della catarsi. 

Per raggiungere questo obiettivo Villaggio non fa altro che ritrarre la mediocrità umana spingendola al suo stesso limite, in quello spazio indecifrabile dove tragedia e commedia si confondono e il reale è riconoscibile ma non più sopportabile.

Semplicemente grottesco: passivo e servile fino alla rabbia, umiliato e umiliante, Fantozzi è il piccolo uomo borghese che si inginocchia ad un rigido sistema gerarchico nel quale il potere è tanto irraggiungibile da risultare metafisico.

Fantozzi è un’altra faccia di quel personaggio che il cinema italiano ha indagato con un’insistenza maniacale nel corso di tutti gli anni ’70, come cercasse in ogni modo di denunciarlo per gridare la deriva umana che esso rappresentava e verso la quale la società pericolosamente si inclinava. Forse perché quell’impiegato mediocre che obbedisce ciecamente agli ordini rievocava in modo inquietante lo spettro del funzionario nazista che esegue l’ordine di aprire e riempire le camere a gas. Sembra che la banalità del male faccia più paura delle bombe e dei sequestri che stanno devastando l’Italia degli anni ’70: qualcuno, forse, aveva intuito che solo eliminando la prima si potevano combattere le seconde.

Eppure, in mezzo a tutte le denunce cinematografiche, quella di Villaggio è quella più violenta. C’è un feroce nichilismo nella sua tragica comicità, l’atroce grido d’impotenza strappato alla gola prima di essere inghiottiti definitivamente da quel sistema. E l’atto estremo dell’accettazione di questo destino irrevocabile non può che essere una risata. Villaggio, d’altronde, era a suo modo un comico.

Esattamente come a suo modo Fabrizio De André era un poeta. E forse non è solo un luogo comune: i poeti sanno sognare. Per questo la storia del piccolo borghese, dell’uomo più banale del mondo, la storia di un impiegato, diventa nelle sue mani la storia di una ribellione. Sognata, tentata, fallita e, infine, paradossalmente riuscita.

Fantozzi crocifisso in sala mensa – Credits: web

De André e la trasposizione della denuncia fantozziana

È il 1973. A cavallo tra il romanzo e la trasposizione cinematografica dell’opera del suo vecchio amico Villaggio, De André sente il bisogno di mettere in scena la sua denuncia.

Un impiegato ascolta, a distanza di cinque anni, una canzone della grande rivolta studentesca nata in Francia nel 1968, la “Canzone del Maggio“. L’ascolta dalla sua casa grigia, mentre fuori dalla sua finestra le ideologie sfociano in estremismi terroristici.

Una frase in particolare sembra echeggiare alle sue orecchie: “Per quanto voi vi credete assolti / siete lo stesso coinvolti”. È quel soggetto plurale a stordirlo. Quell’esplicita accusa di indifferenza e accondiscendenza al potere a scatenare in lui una sensazione che ancora non riesce a spiegarsi. Come un senso di responsabilità, come se quel voi travolgesse anche lui stesso.

E in questo modo s’insinua nella sua vita opaca di impiegato il prurito di una ribellione al potere, nonostante i tentativi di respingerlo e di rientrare nella quotidiana obbedienza: “Adesso è tardi / adesso torno al lavoro”.

Ma il pensiero di una rivolta, ormai, ha fatto breccia nella mente e prende la forma di una curiosità, di un desiderio. Fino a diventare una convinzione cui manca soltanto il coraggio, una volta trovato anche il senso: “ci vuole pure un senso a sopportare / di poter sanguinare / e il senso non deve essere rischiare / ma forse non voler più sopportare”.

La canzone del maggio e la ribellione al potere

La decisione è presa ormai, ma il vuoto del coraggio può essere riempito soltanto dall’immaginazione. Così il suo gesto di rivolta viene progettato all’interno di un sogno.

È un ballo mascherato il luogo dove il tritolo, protesi assassina delle sue mani, deve colpire il potere. Una festa in maschera, perché il potere non ha identità ed è proprio dietro una maschera che si protegge e vede tutto senza essere visto. Di fronte a un simile nemico, l’impiegato ha la sola scelta di commettere una strage, di fare in modo che brandelli di carne si mescolino ai pezzi delle maschere distrutte.

Le maschere che danzano nel valzer hanno i volti ideali dei simboli della cultura occidentale nel suo declino. Un Cristo assuefatto all’idea di sconfitta, una Madonna nostalgica della natività che viene ignorata da un Edipo che ha imparato la lezione, un Dante invidioso che spia nel letto degli amanti Paolo e Francesca. La bomba è imparziale, perché il suo effetto sconvolge ogni equilibrio e non risparmia nessuno, soprattutto l’autorità del padre, privata del suo decoro, e della madre, martire per propria scelta.

Ma il sogno prosegue incontrollato e racconta all’impiegato le conseguenze del suo gesto: al processo il giudice rivela il grande disegno che lo vede attore inconsapevole nelle mani stesse del potere. La sua vita è stata controllata fin dall’inizio dall’autorità, un’entità astratta ed eterna che dirige la vita di ogni singolo individuo in ogni suo gesto. Anche l’atto stesso col quale ha creduto di ribellarsi; è ciò che determina il suo totale asservimento al potere del quale diviene strumento delle sue volontà, esecutore incosciente dei suoi delitti. Diviene egli stesso potere nel ruolo più basso, quello del boia.

Ma il giudice gli concede la decisione del proprio destino. Una concessione che si rivela uno scacco: condanna o assoluzione hanno la stessa conseguenza, quella del carcere o della servitù al potere.

Da La canzone del Maggio a La canzone del padre

Ne “La canzone del padre” gli archi gridano al di sopra delle note cupe del basso, spargendo nel sogno dell’impiegato un fumo nero, come inquietudine, che lo trasforma definitivamente in incubo. È il cortocircuito della mente sognante che grida di fronte all’atroce gioco in cui l’ha incastrata il potere: “assoluzione e delitto, lo stesso movente”.

Il giudice esige una risposta, anche se essa appare scontata: la tranquillità di una vita borghese fatta di “sogni che non fanno svegliare”, il posto di lavoro lasciato libero dal padre, quello di burocrate al servizio del potere. È la confortevole incoscienza che si distingue da quella vita tragica, fatta di eroismo e orgoglio, di chi non cede al compromesso. Come fa invece Berto, “compagno di scuola”, che ha il coraggio grandioso di rifiutare anche l’autorità massima, quella di Dio: “si fermò un attimo per suggerire a Dio / di continuare a farsi i fatti suoi”.

L’impiegato ha scelto il compromesso, la mediocrità servile di una vita protetta e totalmente programmata, anche nelle passioni: “con mia moglie si discute l’amore / ci sono distanze, non ci sono paure”.

Eppure, è forse in quell’impercettibile momento del sonno in cui un rumore reale all’esterno entra senza svegliare che il sogno diretto alla perfezione s’incrina, come se la coscienza si ribellasse. Così, tutto cade bruscamente in distruzione per mano di un figlio che, svuotato da ogni passione, si presenta come il diretto risultato della vita anestetizzata in cui è cresciuto. L’impiegato non riesce a trovare una colpa che vada al di là della scelta che ha compiuto. Tutta la sua rabbia impotente si esprime in una frase, tremendamente ironica, pronunciata a sé stesso di fronte alle fiamme che bruciano la sua vita:questi i sogni che non fanno svegliare”.

Prima che l’incubo svanisca del tutto, una promessa esce dalle sue labbra rivolta al giudice. La promessa di una vendetta che renda giustizia effettiva a tutto questo orrore: una bomba vera, non più un sogno.

La maschera del potere prende la forma fisica del Parlamento, di fronte al quale l’impiegato si dirige per gettare la sua bomba in uno stato di lucida follia. Un gesto estremo contro ogni retorica di rivoluzione dettata dagli intellettuali. Un’azione di pura anarchia, individualista e disperata, qualcosa che possa distruggere l’assurdità e restituire al potere il suo stesso terrore; “qui chi non terrorizza si ammala di terrore / c’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo”. Ma il suo scopo fallisce, la bomba rotola giù dalla scalinata del parlamento e fa esplodere un chiosco di giornali. La sua immaginazione tocca l’onta più grande: sui brandelli dei giornali che gli volano davanti agli occhi, la donna che ama prende le distanze dal suo gesto e lo condanna senza alcuna giustificazione.

De André alla presentazione del disco – Credits: medeaonline.net

Verranno a chiederti del nostro amore, tra la dolcezza e la rabbia di De André

Verranno a chiederti del nostro amore” si apre con una melodia dolce di pianoforte. Ma le note sembrano venire colpite con rabbia dalle dita, come se in quel suono si esprima tutto il dolore di un tradimento. La donna che l’impiegato ama, l’unica persona che credeva l’avrebbe compreso. È una lettera scritta dal carcere nella quale le lacrime sgorgano dall’impotenza e dal rimpianto, dal presente e dal passato, versandosi senza più alcuna pietà su ogni errore, sull’incomunicabilità che li ha sempre distanziati fino a dividerli: “non sono riuscito a cambiarti / non mi hai cambiato, lo sai”.

Ma l’impiegato non riesce a dimenticare quanto grande sia stato il loro amore, lungo e memorabile, seppure non del tutto sincero. Le chiede di non dimenticarsene, di non cadere nella tentazione di raccontare falsità ai giornalisti per renderlo un mostro, ma di essere sincera. Se non altro per se stessa, per la memoria di ciò che hanno vissuto assieme. Le chiede di ammettere a se stessa che anche lei, come lui, è stanca di una vita mediocre: sono sempre stati i suoi occhi a rivelarlo, “troppo stanchi di non vergognarsi di confessarlo nei miei / proprio identici ai tuoi”. Ma lei ha costantemente cercato di nasconderli, di evitare quelli di lui, rendendo così più facile il compito di chi è riuscito a separarli, cambiandoli come non erano stati in grado di fare l’uno con l’altra: “sono riusciti a cambiarci / ci sono riusciti, lo sai”.

E le chiede infine, fuori dal frastuono che si sta scatenando, cosa ne sarà di lei. Se la sua vita resterà la stessa, senza sogni, ancora insoddisfatta, o se anche lei, finalmente, rischierà la tranquillità atroce cui è condannata per poter vivere veramente: “continuerai a farti scegliere, / o finalmente sceglierai?”.

Ma è nel carcere, infine, che come il più grande dei paradossi, quello della vita, la sua ribellione ha successo. Solo nella costrizione della prigione l’impiegato è finalmente libero. È finita l’illusione di potersi ribellare da solo al potere e ha definitivamente rifiutato la possibilità di asservirsi ad esso: “se fossi stato al vostro posto / ma al vostro posto non ci so stare”.

Privato anche della sua stessa dignità, spazzata fino all’ultimo briciolo dal volto del suo amore che nel tribunale lo racconta come un mostro: “quel che dirà di me alla gente, quel che dirà ve lo dico io: / da un pò di tempo era un pò cambiato, / ma non nel dirmi amore mio”.

Dentro il carcere, in mezzo a uomini nella sua stessa condizione, egli trova finalmente la comprensione che istintivamente ha sempre cercato, la condivisione dell’idea per lui imprescindibile che “non ci sono poteri buoni”. È solo dentro il carcere che trova la vera, reale umanità, e da essa può imparare quello che fino ad allora aveva soltanto intuito. Può capire quali sono stati i suoi errori, come se le esperienze di ogni detenuto fossero una grande, preziosissima saggezza: “e adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali / tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali. / Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane / ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”.

La storia di un impiegato è la storia di una crescente appartenenza collettiva

Finalmente riesce a scoprire cosa sia quella sensazione provata all’ascolto della “Canzone del Maggio” e rimasta inspiegata: un senso di appartenenza ad una collettività che il suo gesto di rivolta negava e che ora, invece, sente come irrinunciabile per poter compiere finalmente quella ribellione. L’individualità assoluta e sterile diviene quella pluralità di cui aveva ignorato l’importanza. Essa, insieme a quella rabbia mai estirpata, può finalmente far riuscire la rivolta comune, all’interno del carcere, e permettere alla sua voce di unirsi alle altre nel pronunciare le parole della “Canzone del Maggio, quel grido di accusa dentro il quale libera tutta la sua volontà di ribellione nell’istante stesso in cui la soddisfa, “per quanto voi chi crediate assolti / siete per sempre coinvolti!”.  

In mezzo alle denunce cinematografiche di quegli anni, Storia di un impiegato ha la sua incredibile unicità. Un concept album, un disco che potrebbe essere un romanzo, un’opera teatrale, un film, ma più di essi la denuncia di De André è poesia che si specchia nel reale attraverso la musica. Perché forse sono proprio la musica e la poesia a superare qualsiasi linguaggio artistico, anche quello cinematografico, per disegnare quello che abbiamo di fronte agli occhi ogni giorno. È una storia comune e straordinaria, è la vita stessa.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.