Dahomey di Mati Diop. Courtesy of Lucky Red e MUBI
Dahomey di Mati Diop. Courtesy of Lucky Red e MUBI

È un’immagine potentissima quella di Mati Diop, lo scorso febbraio, mentre stringe a sé e bacia l’Orso d’oro appena vinto alla Berlinale 74 per Dahomey. A renderla tale è lo sguardo colmo di fierezza, oltre che di gioia, uno scatto che dice molto anche di questo documentario che ha scelto di realizzare dopo il suo esordio alla regia, altrettanto straordinario, Atlantique.

Al cinema dal 7 novembre 2024 con Lucky Red e successivamente in streaming su MUBI.

Dahomey: un po’ di contesto

Dahomey è il nome dell’antico regno del continente africano che oggi corrisponde al territorio del Benin. È ricordato soprattutto per il suo storico esercito di Amazzoni, su cui Gina Prince-Bythewood ha realizzato The Woman King con Viola Davis, ma a cui in parte si ispirano anche le Dora Milaje di Wakanda in Black Panther.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento il Dahomey ha subìto il colonialismo e l’occupazione francese, riconquistando l’indipendenza circa 100 anni dopo, nel 1960. Durante i combattimenti ottocenteschi, l’esercito ha trafugato e portato in Europa migliaia di opere d’arte, che sono entrate a far parte del patrimonio museale francese, soprattutto parigino.

Una scena di Dahomey di Mati Diop. Courtesy of Lucky Red e MUBI
Una scena di Dahomey di Mati Diop. Courtesy of Lucky Red e MUBI

Il 9 novembre 2021, dopo che nel 2017 il presidente Emmanuel Macron ha riaperto la questione della restituzione delle opere africane in Francia – un totale di 26 reperti è stato rispedito in Benin. Mati Diop ha seguito l’intero viaggio, dal museo du quai Branly fino all’esposizione in Benin, osservando anche come questo ritorno a casa è stato accolto, analizzato e valutato da una giovane popolazione in cerca della sua nuova identità dopo un secolo di colonialismo.

La struttura di Dahomey: pro e contro

Se fosse solo un’opera-testimonianza del “ritorno a casa” dei tesori del Dahomey, il documentario potrebbe ben ridursi a un cortometraggio. Se fosse un lavoro di approfondimento didattico – da canale d’arte e cultura in tv – dovrebbe raccontare molto di più sulla questione storica e ancora aperta della restituzione artistica: il 90% del patrimonio artistico del continente africano è stato sottratto dagli eserciti coloniali. E dovrebbe entrare ancora più a fondo nel complesso discorso sul ripensamento del concetto stesso di museo, non adatto alle culture non occidentali (e obsoleto anche da questa parte del mondo, quando si tratta di opere sottratte alle ex colonie europee).

Mati Diop non sceglie né l’una nell’altra formula. Entra, silenziosa e invisibile, fra i corridoi dei depositi del quai Branly. Si intrufola nelle procedure di valutazione, imballaggio e spedizione delle opere d’arte e, una volta in Benin, osserva sempre a distanza le reazioni di uomini e donne di ogni età, bambini e bambine che per la prima volta si trovano faccia a faccia con il loro passato, con la loro storia. Proprio qui, in questo sentimento molto complesso e contraddittorio di appartenenza ed estraneità, Diop riconosce il nucleo sociale del suo film, per questo sceglie di dedicare molto tempo e molto spazio a una riunione degli studenti dell’Università di Abomey-Calavi, in modo da analizzare diversi punti di vista, dai più scettici ai più entusiasti.

Dahomey. Courtesy of Lucky Red e MUBI
Dahomey. Courtesy of Lucky Red e MUBI

Funziona tutto nel complesso, ma difficilmente Dahomey potrebbe reggere una durata superiore ai suoi 68 minuti, proprio perché sceglie di non oltrepassare certi limiti. Lascia sullo sfondo le condizioni di estrema povertà del Paese, che portano anche la popolazione a non interessarsi all’arte o pagare un museo se non riesce a fare tre pasti al giorno. È come se mancasse qualcosa, una conclusione prima di tutto, ma anche una parte di denuncia più “istituzionale” che Diop sceglie di tagliare fuori. E infatti ciò che rende Dahomey il film da Orso d’oro è tutt’altro.

L’arma segreta di Mati Diop

Il realismo di Mati Diop è sempre attraversato da qualcosa di perturbante e indimenticabile che fa da vero gancio per il pubblico. In Atlantique sono stati gli occhi bianchi delle anime defunte in mare, che improvvisamente appaiono negli specchi, tornando a casa. Qui invece è la Voce dei tesori del Dahomey. Una voce singola e molteplice, divina e spaventosa, che si impone come unica protagonista, spegnendo persino le immagini e trionfando su un fondo nero, da cui è comunque impossibile distogliere l’attenzione per diversi minuti.

Alle Voci dei tesori è affidato il compito di rivolgersi direttamente allo spettatore, stimolare un pensiero o soltanto un brivido, l’emozione di trovarsi di fronte a qualcosa di eterno, forse non del tutto umano. O meglio comprensivo di un’umanità molto più grande del singolo, nel passato, nel presente e nel futuro.

È questa Voce che, da sola al buio o dialogando direttamente con le immagini silenziose di Mati Diop, fa di Dahomey un’esperienza di visione rara. Terrificante, a tratti, soprattutto perché capace di restituire alle 26 opere la sacralità di cui il nostro sguardo le ha private per oltre un secolo.

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