L’Associazione Amici di Luciano Sovena, fondata da Simona Banchi, Steve della Casa, Cristiana Massaro, Francesco Ranieri Martinotti, Maria Carolina Terzi e altri amici ed estimatori, è nata con l’obiettivo di continuare l’impegno a favore del cinema indipendente e d’autore, che ha rappresentato l’elemento distintivo della attività professionale di Sovena, avvocato specializzato nel settore cinematografico scomparso lo scorso maggio. Ha recentemente conferito una borsa di studio a sei studenti selezionati provenienti da diverse scuole di cinema italiane. Questi fortunati studenti hanno avuto l’onore di partecipare alla 41esima edizione del Torino Film Festival 2023, diretto da Steve della Casa, e di immergersi nella sezione Crazies. Tale sezione, ideata nel 2022 da Luciano Sovena, è dedicata al cinema horror e fantastico di cui era un appassionato cultore.
Le borse di studio sono state consegnate a Aurore Dupaquier, Ilaria Ferretti, Simone Cignitti, Niccolò Isolino, Laura De Luca e Nikolai Palmieri, provenienti rispettivamente dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini, Istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni, Scuola di Sceneggiatura Leo Benvenuti, Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté. FRAMED Magazine ospita, con il supporto di Silvia Pezzopane, un riassunto critico di ciò che hanno rappresentato i film di Crazies e perché è così importante cogliere il fil rouge che li lega.
Cosa significa fare cinema di genere oggi
C’è chi nota nei film di Dario Argento quell’aspetto ironico e al contempo bislacco che si nasconde fra una sequenza e l’altra. Ilarità e terrore, sorrisi e coltelli affilati; come può l’ironia addentrarsi nella selva oscura del cinema horror? Può fino a diventarne in verità parte integrante, e si accompagna alla paura, ma anche, a volte, al coming of age, alla scoperta della sessualità, e a molto altro. Ecco perché nella sezione Crazies dedicata al cinema fantastico e horror del Torino Film Festival non si può parlare solo di film di genere.
Mostri che hanno le sembianze di armadi, colleghi di lavoro che si trasformano in bestie omicide, vampiri di sinistra, donne figlie del peccato che non riescono a morire, adolescenti nerd che si preparano alle loro prime volte, demoni gentili che gracchiano come rane, e ancora uomini incastrati tra vita e morte, bambine che sognano di diventare streghe, maternità vissuta come diritto e dovere, il folklore di una terra lontana che ha perso i suoi costumi.
All’interno dei film in concorso nella sezione Crazies del Torino Film Festival sembra che quella caccia all’assassino de Il mostro di Dusseldorf di Fritz Lang o quel sangue zampillante di Jack Lo squartatore non trovino più spazio. I registi di tutto il mondo (Francia, Belgio, Corea, Giappone, Italia, America, Spagna, Africa) hanno preferito soffermarsi su altro, analizzando, sempre con un pizzico di humour, le angosce moderne. La paura che H.P. Lovecraft riteneva capace di “far sentire veramente vive le persone” a Torino ha un sapore diverso, più reale.
È finito il tempo per parlare di fantasmi, zombie o di vampiri (comuni), dimentichiamoci lo striminzito e inquietante bevitore di sangue alla Nosferatu di Murnau, perché in film come La Morsure e Marinaleda abbiamo a che fare nel primo caso con un semplice uomo disadattato e nel secondo con un semplice uomo disadattato e pure comunista. Gli esseri umani e i mostri (se siamo così sicuri che non siano fatti della stessa carne) di oggi sono il frutto di una società alienata, smarrita e allettata dal mito fondato del senso di colpa, in preda al fallimento personale e al sempiterno decadimento dei valori e degli ideali.
Ma la cosa curiosa e intrigante è che tutto il male espresso in questi film (c’è chi c’è riuscito di più e chi meno) ha un significativo velo di ironia, e lo stesso vale per il dolore, come se si volesse esorcizzare così la sofferenza. Se l’horror dall’alba dei suoi tempi è sempre andato a trasformare ciò che vedeva, la Grande Guerra, la povertà, la dittatura, in mostri, vampiri, scienziati pazzi, Freaks e molto altro, al TFF queste impressioni sul mondo sono state rilette. Crazies ha permesso al suo pubblico di vedere cosa significa fare cinema fantastico e horror oggi senza per forza andare a disturbare la cruenta distopia; del resto, tutto quello a cui assistiamo ogni giorno è quasi peggio di un incubo. Concetti e paure hanno acquistato un volto contemporaneo.
I film di Crazies 2023
In concorso
Augure/Omen di Baloji Tshiani (vincitore)
Dopo il suo passaggio a Cannes, Omen (Augure), opera d’esordio del regista belga-congolese Baloji Tshiani, vince la sezione Crazies. Un film dal carisma multiforme come il suo regista, dove i crimini si accettano per spiritualità, dove i corpi dai colori contrastanti si intrecciano senza riuscire a liberarsi del tutto, dove le unghie dei ragazzi di una banda strappano la carne ma non le superstizioni.
È la storia di Koffi (Marc Zinga), rinnegato giovanissimo da sua madre perché era un cosiddetto “zabolo” (in swahili un mago malvagio), che torna in Congo, accompagnato dalla moglie europea Alice (Lucie Debay), incinta. Ma per l’uomo che è segnato sul viso dal “compito del male”, le credenze popolari rendono impossibile ogni dialogo con la propria comunità. Augure (Omen) è un film che mostra il terribile pericolo dei modelli che si riproducono, della misoginia che si rivela, come un verme, in tutti i loro interstizi. E se la liberazione non può venire che dalla differenza, è l’unione a far la forza.
Da qui un film “corale” che segue tre personaggi, tre magi e maghe – Koffi, Paco (il giovane membro di una banda che indossa tutù fuxia), e T’Shala, una delle sorelle di Koffi colpevole di scegliere per ideale l’amore libero – che cerca di liberarli della loro stigmatizzazione. Baloji, che si definisce “infettato da una “malattia sensoriale”, ci proietta in un intenso e creativo gioco di colore: dal rosa delle bande al marrone opaco e cenere del cratere, dal bianco delle guance, rese livide dalla paura, al nero ebano delle pelli striate dei marchi degli antenati. Baloji si intromette nei meandri di una realtà cruda quanto poetica attraverso alcune scene di eccezionalità critica e magica. Lo “spirito Crazies” è con Omen vivissimo: l’umano, ben spesso, si nasconde dietro il non-umano. Il marchio del male non è altro che quello della colpa umana, proprio quella che si fa fatica ad accettare.
The Complex forms di Fabio d’Orta
Esiste una villa nascosta nell’Italia del Nord dove individui disperati tentano di vendere i propri corpi a misteriose entità in cambio di denaro. Tutti maschi, capitanati da uno splendido David Richard White: uomini che faticano forse più delle donne a sovrastare il peso della solitudine e quindi giunti, con le mani conserte, a vendere quello che hanno o che gli è rimasto come il proprio corpo, in cambio di soldi, e pure compagnia.
Il regista tuttofare (D’Orta si è occupato di regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio, effetti visivi) ha presentato il suo film dicendo: “Arriva un momento della vita in cui tutto sembra crollare. Un tempo in cui dici a te stesso che tutto è finito e che l’unica forma di riscatto è rappresentata da una quieta sottomissione. Tuttavia questa sospensione, questa attesa, questa anestesia è sempre illusoria, e soprattutto ha un prezzo.”
The Complex Forms racconta proprio un limbo esistenziale, quella terra di mezzo in cui ognuno di noi almeno una volta nella vita si è trovato ad abitare. Ma più che dedicare spazio all’annosa questione del corpo e del concetto di limite, bisognerebbe soffermarsi sull’identikit della paura che ci fornisce il film. Chiunque, provando angoscia o ansia, riconduce i pensieri opprimenti a qualcosa o qualcuno, a una immagine precisa, focalizzata, che resta impressa nella mente per qualche istante, oppure per anni. E se lavorassimo con quella paura provando a modellarla come fosse un foglio di carta bianco, con tutti i colori del mondo a disposizione, che rappresentazione avrebbe? D’Orta questo esercizio l’ha fatto, mettendo nel suo film un mostro che sembra aver rapinato un negozio d’antiquariato, preferendo agli esseri deformi e terribili quelli assurdi e impensabili, come il suo, fatto di tanti strati di legno.
La Morsure di Romain de Saint-Blanquat
È il 1967, hai diciassette anni, frequenti un collegio femminile cattolico, e hai il terribile presentimento che ti sia rimasta solo l’ultima notte al mondo per vivere. Così inizia la serata di Françoise (Léonie Dahan-Lamort), che sgattaiola fuori dalle mura del collegio insieme all’amica Delphine per partecipare a una festa in maschera. In questo film squisito ci sono ragazzi pieni di rabbia che non comprendono il mondo dei grandi, quei misteriosi adulti. Il loro è un ecosistema simbolista, un ambiente privato dove solo pochi adepti conoscono il modo per entrare.
L’adolescenza, quella di Françoise come quella di Christophe (Maxime Rohart), un ragazzo che si presenta a lei come vampiro ma che ha invece tutte le sembianze di un delizioso nerd, sembra racchiusa in una delle ultime sequenze del film quando i due avvinghiati l’uno all’altra si ritrovano in una piccola chiesa nel bosco a cui decidono di dare fuoco. Perché lo fanno? Perché sono arrabbiati con tutto il mondo. Françoise si sente impotente, sa che prima o poi dovrà morire, ma non sa quando. E il mondo e la religione, se ce n’è una, deve saperlo, deve pagarla. Eppure come fosse la trama rubata all’Alcesti di Euripide e poi capovolta, a sacrificarsi, a morire al suo posto sarà proprio una persona “proveniente dal mondo dei grandi”. Qui la recensione completa del film.
The sin di Han Dong-seok
Siamo in Corea del Sud e Si-young (Kim Yoon-hye) è la protagonista, un’attrice scelta per interpretare il ruolo principale in un film sperimentale sulla danza. La perplessa Si-young, che a malapena sa cosa dovrà fare sul set, durante il primo giorno di riprese inizia a lavorare a delle coreografie con la sua compagna Chae-yoon; così geometriche, così speculari, che sembrano parte di una cerimonia sciamanica diretta dal regista del film.
Finita la danza infatti c’è il primo morto (e risorto), un membro del team di produzione cade dal tetto del palazzo e inspiegabilmente si rialza, il suo corpo senza vita cammina di nuovo animato da una forza oscura. Diventa uno zombie. Se per la prima ora sembra che tutto stia andando secondo un determinato registro, d’un tratto viene svelata l’identità di chi ha dato inizio a questo gioco perverso. Ma, come se non bastasse, le carte in tavola vengono ancora una volta cambiate. Perché quella che sembrava essere la rappresentazione del male, diventa in poco tempo la parte lesa. L’iniziale attribuzione di colpe che vedeva la protagonista vittima inequivocabile di un rebus dalla facile soluzione, viene d’un tratto sovvertita. Il peccato infatti è proprio dentro Si-young.
Il sangue putrefatto, le teste zombie, la furia omicida: tutto è riconducibile a lei. Il problema è che in The sin si parla troppo (e in maniera del tutto confusionaria) di zombie e di colpe, quando i momenti più interessanti sono racchiusi nei secondi dedicati al discorso sulla religione, fondamentale per un film ambientato in Corea del Sud, come il tema della presenza oppressiva dei media, interessantissimo e che si nasconde nel film in un timido cameo della polizia. Purtroppo viene dato troppo spazio a questa rocambolesca ricerca dell’untore che alla fine è lo spettatore in sala ad arrendersi, mostrandosi esanime e sconfitto sulla poltrona.
La ermita di Carlota Pereda
Una bimba di nome Emma, costretta a prendersi cura della propria mamma malata terminale, passa le sue giornate ad architettare modi per comunicare con il presunto spirito di una sua coetanea custodito nell’eremo del suo villaggio. Emma ha sogni semplici. Vorrebbe la sua mamma sana, viva, accanto a lei a stringerle forte le mani, ma si accontenterebbe anche di trovare un modo per continuare a parlarle quando non ci sarà più.
La bambina ha in effetti questo dono per la chiaroveggenza, una sensibilità verso il mondo dei morti che si manifesta ogni qual volta le sue piccole dita sottolineano e sfogliano goffamente il libro della stregoneria che porta sempre con sé. Ma Emma “la sovversiva” non può fare tutto tutto da sola, questa volta per arrivare nell’Aldilà ha bisogno di un aiuto, di una medium di nome Carol. Con La ermita si ha la sensazione di vedere sul grande schermo un film che funzionerebbe molto meglio in televisione. La patina vintage e la trama strappalacrime confezionano un prodotto perfetto per un pubblico televisivo.
Vincent doit mourir di Stéphan Castang
Se si cerca online Vincent doit mourir è catalogato come commedia thriller, e forse non a caso dato che fa inizialmente sorridere lo spettatore per poi rimpinzarlo di numerose domande, esistenziali e angoscianti. È la storia di un uomo qualunque che improvvisamente viene preso di mira da tutte le persone che lo circondano. Da quelli che sembravano episodi isolati all’interno del suo ufficio (un collega aveva persino tentato di bucargli la mano con una matita), sempre più persone con il passare del tempo sembrano eccitate dal desiderio di ferirlo, o ucciderlo. Vincent (Karim Leklou), che credeva di avere avuto solo una lunga serie di giornate “no”, si rende conto che forse la sua non era stata soltanto questione di sfortuna, ma il segno di qualcosa di più grande di lui, che lo porterà alla fuga da ogni contatto umano, nel tentativo di riscrivere completamente se stesso e la sua vita.
Quella di Stéphan Castang è un’operazione potenzialmente vincente che usa l’ironia per addolcire la medicina aspra che ci rifilerà successivamente. Un’ilarità che lo avvicina a Beau is Afraid di Ari Aster, che genera l’assurdo che a sua volta genera la violenza. Il film si presenta come un insieme stratificato di questioni e dibattiti intorno al senso di colpa e all’altro da sé. Che cosa ho fatto io per meritare tutto questo? Una domanda a cui da sempre cerchiamo di dare una risposta alzando lo sguardo e arrabattando risposte confuse, pensando a Tantalo, a chi ha sbagliato prima di noi, una domanda che quest’anno è stata al centro di diversi film di successo.
Birth/Rebirth di Laura Moss
Destinato a tormentare la nostra coscienza, Birth/Rebirth, il film di Laura Moss, montato con il bisturi, si erge come la pietra più solida dell’edificio Crazies. Una bambina morta artificialmente viene riportata in vita da due paia di mani giunte: quelle calde e rassicuranti di Celie (Judy Reyes), quelle gelide e minuziose di Rose (Marin Ireland). Tra una madre e una nuova creatrice, Lila (A.J. Lister), che già apparteneva all’aldilà, si ritrova proiettata in una terra di mezzo.
Asettico e impeccabile, cronenberghiano, come realizzato in acciaio inox, Birth/Rebirth sostiene un discorso bioetico che tocca tanto all’impossibile decisione quanto all’ingiusta appropriazione (‘My daughter is not an experiment!’). Finché si scopre che l’esperienza in questione ha come scopo proprio la sua risurrezione. Al crocevia del Frankenstein di Shelley, dell’ultima Bella di Lanthimos (Poor Things), e della Coppélia di Nuitter, il film di Moss traspone la mostruosa creazione in chiave interamente femminile.
Paradigmatico di un cambiamento di prospettiva spinoziana, secondo cui non si pensa più ciò che è il corpo bensì ciò che può, Birth/Rebirth interseca un’ampia gamma di contemporanee preoccupazioni, al centro delle quali la maternità, tematica ampiamente esplorata da questa 23esima edizione del TFF (basterebbe qui nominare Il rapimento di Iris Kaltenbäck, o Birth di Jiyoung Yoo). Avvalendosi dalle note umoristiche dell’assurda quotidianità delle due donne, Moss ci spinge ad un’intensa riflessione su quanto ci si possa spingere oltre per amore e per ingiustizia.
Visitors di Kenichi Ugana
La menzione speciale della nostra orrifica rassegna va a Visitors – Complete Edition, del giapponese Kenichi Ugana. E per una buona ragione: questo folle viaggio incarna alla perfezione lo “spirito Crazies“. Costruita sulla stessa linea antologica di Extraneous Matter – Complete Editions – proposta all’edizione 2021 del TFF – questa mini-saga di 60 minuti fa di un’invasione (di un altro tipo) l’occasione comica, orrifica e critica, di ripensare i fondamenti della nostra attuale e umana comunità. Durante la visita di tre ragazzi al loro amico Souta, recluso da settimane, avranno luogo intense trasformazioni e orribili demonizzazioni. Eppure, piuttosto che verso la distruzione, porteranno verso nuove e strane creazioni.
In questa modalità ancora molto legata all’universo seriale, Ugana lavora la temporalità attraverso la sua dilatazione tanto quanto la sua cristallizzazione: l’ingranaggio dei codici horror rompe volutamente l’equilibrio, senza mai mancare alla qualità della narrazione. Richiamato alla sua essenziale porosità, sia dallo slapstick che rivela i suoi cortocircuiti meccanici, sia dallo splatter che lo dilania, il corpo umano non può più fingere di essere un involucro stabile, e diventa un’intensa superficie di contatto.
L’integrità, infatti, è un miraggio del passato. Nel cuore di questa “orgia visiva” dove regna l’eccesso di generi e materiali, ritmata dal fuzz-punk della musica creata da Ila Morf Oel, l’origine della minaccia non è mai evidente. L’orrore a volte porta all’ingenuità e la lingua precipita in una risata furiosa, totale e totalizzante, come se la vera gioia fosse l’origine dell’essere-insieme. Se l’uomo è un animale politico, se è colui che crea una parlante comunità, che dire di una comunità di esseri ridenti?
Fuori concorso
Michael Vay di Nicolas Deschuyteneer e Patricia Gélise
Una narrazione che tenta Big Fish, azzarda Strade perdute, catalogabile come road movie che gioca su una linea temporale e spaziale contorta, i minuti che passano non si riescono a contare (forse per noia o forse perché davvero non esiste il tempo nel film), dove piano piano anche il suolo perde consistenza. È il tentativo di fuga di un criminale affamato di libertà, Michel Vay (Marc Barbé): ogni suo passo viene però ostacolato da incontri inaspettati. Un film che riesce a essere claustrofobico nonostante abbia solo scene all’aperto, e persino fastidioso per lo spettatore che con occhio attento esige chiarezza sui fatti, su quello che succede al povero Michel, subendo continue frustrazioni, forse così troppe volte da far quasi perdere il gusto di continuare con la visione.
Marinaleda di Louis Seguin
Il “film di vampiri” di Louis Seguin si allontana radicalmente, almeno a prima vista, dai racconti gotici che spesso caratterizzano il genere. Tantissima ideologia, e infine anche il sangue. Discorsivo, eccessivamente normalizzato, il film racconta l’epopea politica di Sastefanus (François Rivière) e Kyrie (Luc Chessel), che fanno autostop sulle strade della Corrèze, con l’obiettivo di raggiungere Marinaleda, un villaggio autogestito nel cuore dell’Andalusia. Evidentemente non sono semplici autostoppisti. Cercando, insieme alla loro autista (Pauline Belle), di sfogare la sete (e la solitudine ancestrale), fanno del vino un’ebbrezza di altro genere.
Irritati dall’aridità discorsiva ed estetica del film, si è finalmente presi dal gioco al punto di desiderare che l’arrivo del fantastico non avvenga, ma che il vampirismo possa essere giustificato come alternativa politica, ecologica e comunitaria all’alimentazione onnivora. Ma il fantastico avviene, come richiesto da quelli che non possono fare a meno del mistero presumibilmente erotico dei vampiri. Un film che non maschera la sua influenza rohmeriana (anche nella presenza furtiva di Marie Rivière, accanto a suo figlio), ma il cui umorismo proviene essenzialmente dall’eccessivo realismo del linguaggio, ricreando un vampirismo assolutamente nuovo perché “comune”, almeno nella prima parte. Menzione speciale alla Passione di Bach versione elettronica, che accompagna e valorizza la discesa nel fantastico.
The Animal Kingdom (Le règne animal) di Thomas Cailley
Cosa faresti se domani tuo figlio si trasformasse in un lupo mannaro? Probabilmente Thomas Cailley questa domanda se l’è fatta e poi ci ha fatto pure un film, Le Règne Animal, presentato in anteprima mondiale come film di apertura della sezione Un certain Regard al 76esimo Festival di Cannes.
L’umanità viene sconvolta da misteriose mutazioni che trasformano parte della popolazione in ibridi uomo-animale. Il film inizia in medias res. Un padre, François (Romain Duris), ha appena portato suo figlio Émile (Paul Kircher) a una visita medica, sulla strada di ritorno però i due restano imbottigliati nel traffico e scorgono un furgone con a bordo delle misteriose creature, tra cui la moglie di François che, come molte altre persone, ha cominciato a trasformarsi in animale. L’uomo e il ragazzo si mettono così alla sua ricerca della donna aiutati da una poliziotta. Nel frattempo però, anche in Émile appaiono i primi segni della mutazione. In questo thriller fantascientifico l’eco-ansia è un elemento presente, ma non divora la scena, e guai a parlare di Apocalisse.
Le Règne Animal è il ritratto sincero di un rapporto padre figlio ostacolato da una società intera che fa i conti con il diverso, con il lato più irrazionale, più bestiale di sé. “Cosa non si fa per amore”, diceva qualcuno, ecco in questo film sembra che persino essere a metà tra un animale e un uomo non sia un problema. Quella madre “diversa” ma desiderata più di ogni altra cosa, e poi quel figlio che inizia il suo processo di mutazione proprio nel momento in cui si innamora di una ragazza che lo vuole esattamente così com’è. Tutto in Le Règne Animal è in costante mutamento, in fieri, in una corsa contro tempo il tempo e la libertà, tranne il sentimento dell’amore che è ben saldo a terra.
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