Dopo il debutto al Toronto Film Festival lo scorso settembre, Concrete Cowboy è stato immediatamente acquistato da Netflix, approdando sulla piattaforma lo scorso 2 aprile. Si tratta di uno di quei film che avremmo dovuto vedere in sala e che, probabilmente, sul grande schermo avrebbe lasciato senza fiato per la fotografia e per le scelte stilistiche e registiche.
Pur trattandosi di un esordio, o forse proprio per questo, quest’opera prima di Ricky Staub si diverte infatti a sperimentare con la macchina da presa. Cerca inquadrature stranianti e distorte, false soggettive, corse affannose in camera a mano, ralenti estremi. Insegue una luce particolare, in grado di cogliere la poesia e la bellezza anche dove apparentemente non esistono.
C’è chi ha trovato questo tentativo autoriale fastidioso, superbo e ricercato senza una vera motivazione, soprattutto di fronte alla storia che racconta. E in effetti c’è una discrepanza tra l’estetica e la messa in scena del racconto, poiché sembra non esserci convinzione fino in fondo (forse anche perché il regista di questa black story è bianco). A primo impatto emerge una patinatura superflua, ma un senso ce l’ha. E con le dovute differenze del caso è sempre lo stesso, da Moonlight in poi: l’esaltazione e la rivalorizzazione dell’immagine nera, del corpo. Solo che qui è un discorso che procede parallelamente alla narrazione, non ne è parte integrante.
La distanza tra intenzioni e realizzazione in Concrete Cowboy
Visivamente Concrete Cowboy riesce appunto a comunicarci percezioni fisiche molto precise: gli odori, il caldo e l’umidità sulla pelle, la brezza serale. Stimola anche i sensi che il cinema non ha, per definizione. Il suo obiettivo, tuttavia, è un altro e purtroppo non è pienamente raggiunto.
Vorrebbe infatti raccontare una storia di riscatto personale che tuttavia non ha delle forti premesse o motivazioni in sceneggiatura, nonostante sia tratto da un romanzo, Ghetto Cowboy. Quel che vediamo è un adolescente problematico di Detroit, Cole (Caleb McLaughlin, Stranger Things) che attraversa un cambiamento psicologico notevole ma non giustificato adeguatamente nel film. Arriva a Philadelphia perché costretto a trascorrere l’estate dal padre (Idris Elba) e qui scopre l’esistenza dei black cowboys. Dettaglio, quest’ultimo, che caratterizza l’identità dell’intero film, grazie anche a veri cowboys e cowgirls della zona.
Il nucleo narrativo è allora tutto focalizzato sulla doppia idea di un’eredità spirituale e culturale da riscoprire. Da un lato quella costituita dal rapporto familiare e affettivo tra Cole e il padre, sconosciuto e assente. Dall’altro quella di uomini e donne che celebrano simbolicamente la libertà attraverso l’amore per creature selvagge come i cavalli. Puoi sellarli, puoi cavalcarli ma non potrai mai sottometterli, come il popolo nero, dicono loro stessi. È tutto qui il senso del film.
Per reggere un minutaggio di due ore, però, è necessario aggiungere qualcosa in più ed è in questo che Concrete Cowboy sbanda. Per evidenziare l’iniziale estraneità di Cole nell’ambiente dei cowboy, si apre la parentesi della piccola criminalità, dello spaccio e della vita di strada che lui stesso aveva lasciato a Detroit. Il personaggio di Smush (Jharrel Jerome, Moonlight, When they see us) fa intravedere un altissimo potenziale, che tuttavia non esplode mai. Così ci è difficile capire perché Cole sia così fortemente attratto nella sua orbita, quando invece avremmo dovuto immedesimarci nel suo conflitto interiore, tra la vecchia e la nuova vita.
Non è comunque una ragione per screditare l’intero film che, sicuramente, vale almeno una visione.
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