Joaquin Phoenix, Woody Norman, Courtesy A24

Le città, in bianco e nero, pullulano di voci. Annotate, registrate, memorizzate: sono le voci del futuro che forniscono risposte. Addentrandosi nel dolore del ricordo e nella speranza nei confronti della nuova, pulsante e consapevole, generazione, C’mon C’mon si concentra proprio sul ricordare, necessario per restare.

C’mon C’mon è il nuovo film di Mike Mills: il regista arriva così al suo quarto lungometraggio (dopo 20th Century Women, 2016), ma le prime vibrazioni del dramma “gentile” a misura di bimbo mi riporta più al lavoro del regista sui videoclip.

Sarà per l’aspetto visivamente nostalgico con cui la forza di C’mon C’mon si propaga di scena in scena, o per l’apparente semplicità con cui si concede allo sguardo, celando invece gli interrogativi più complessi che un essere umano può porsi (e porre): il lavoro delicato che Mills opera sulle immagini e lo stesso che gli permette di raccontare l’essenza dell’amore, dell’esistenza, e in questo caso della paternità e del ricordo, nei pochi minuti di un video musicale. Dilatato qui in poco meno di due ore.

La riduzione delle azioni a gesti semplici e significativi fa di C’mon C’mon un film che non arriva subito, ma che continua a scavare anche dopo giorni, mesi.

Ricordare

Johnny (Joaquin Phoenix), è un giornalista radiofonico e sta portando avanti un progetto assieme ai suoi colleghi. Viaggiando di città in città (inizialmente lo vediamo a Detroit), intervista una serie di bambini e bambine ponendo delle domande relative al futuro, per imparare da loro, e fissare quel punto di vista colto nel momento di maggior libertà mentale che un individuo può possedere.

“When you think about the future, how do you imagine it will be?”

L’esigenza di ricordare si traduce in questa ossessione “buona” di dover registrare il presente, con i suoi suoni e le sue anime acerbe, quelle che saranno le voci del domani. La necessità di fissare le parole e i pensieri è per Johnny la reazione alla malattia di sua madre, morta un anno prima a causa di demenza.

Proprio da quel momento non rivolge più la parola a sua sorella Viv (Gaby Hoffmann), che torna a contattarlo proprio mentre sta lavorando per pregarlo di raggiungerla a Los Angeles per prendersi cura di suo figlio Jesse (Woody Norman), di nove anni. La donna è costretta a partire per assistere il marito Paul, affetto da una malattia mentale e sotto farmaci.

Senza mantenere le distanze

Non solo Johnny legherà tantissimo al nipote, ma riuscirà a costruire con lui un rapporto alla pari a prescindere dalla sua età. Non avendo mai avuto figli, la sua relazione con i bambini era prima di quel confronto perfetta in quanto superficiale: con Jesse riesce a comprendere cosa significhi scontrarsi con una personalità definita che non solo sa rispondere alle domande sul futuro, ma sa esattamente quello che non vorrebbe che accadesse nel suo.

Quelle distanze mantenute fino all’incontro (e scontro) con Jesse si accorciano inevitabilmente e lo zio malinconico con il microfono sempre in mano comprende il vero senso del suo lavoro, ma soprattutto di ciò di cui ha bisogno per far sì che quei ricordi continuino a vivere.

In breve

C’mon C’mon è un film “nudo”, in parte biografico, in cui Mills mostra la semplicità di un dialogo a due. Cosa ricorderanno le voci che Johnny sceglie di intervistare? Cosa sceglieranno? La ricerca del senso è contenuta nelle stesse domande, a cui il protagonista trova risposte più importanti dei vecchi risentimenti e dei fallimenti passati.

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Silvia Pezzopane
Ho una passione smodata per i film in grado di cambiare la mia prospettiva, oltre ad una laurea al DAMS e un’intermittente frequentazione dei set in veste di costumista. Mi piace stare nel mezzo perché la teoria non esclude la pratica, e il cinema nella sua interezza merita un’occasione per emozionarci. Per questo credo fermamente che non abbia senso dividersi tra Il Settimo Sigillo e Dirty Dancing: tutto è danza, tutto è movimento. Amo le commedie romantiche anni ’90, il filone Queer, la poetica della cinematografia tedesca negli anni del muro. Sono attratta dalle dinamiche di genere nella narrazione, dal conflitto interiore che diventa scontro per immagini, dalle nuove frontiere scientifiche applicate all'intrattenimento. È fondamentale mostrare, e scriverne, ogni giorno come fosse una battaglia.