E se per usare una macchina da presa servisse una licenza, come per le armi? Lo dice il regista Ruben Östlund in una recente intervista al The Guardian: “Serve per le pistole, almeno nei Paesi più civili, e un obiettivo fotografico è uno strumento altrettanto potente”. È un’idea radicale questa, ovviamente, ma basta anche a spiegare cosa sta succedendo intorno al film di Alex Garland, Civil War.
Garland non solo immagina un mondo in guerra – non difficile di per sé – ma ambienta il conflitto dentro i confini degli Stati Uniti. Le Western Forces (WF) di Texas e California contro tutti. Uno stesso popolo diviso e dilaniato dall’odio reciproco: nemmeno questo troppo complesso da proiettare nel futuro.
Una Civil War pericolosamente attuale
Non c’è alcun riferimento a eventi reali, né l’assalto a Capitol Hill né alle, seppur urgenti, questioni sociali statunitensi (prima fra tutte, il razzismo sistemico). Eppure il tempismo è tutto, e l’arrivo in sala a pochi mesi dalle elezioni (e in streaming pochi giorni prima del voto) aggiunge uno strato di significato impossibile da ignorare.
La polarizzazione fra Stati blu e Stati rossi, fra democratici e repubblicani, progressisti e conservatori sta arrivando al suo limite naturale, sembra dire Garland. Incattivito, il dibattito pubblico esplode e sparisce, lasciando spazio solo a sangue, morte e volontà di distruzione.
“What kind of American?“
Non è facile guardare ciò che Civil War mostra. Fa paura perché è credibile, ma non solo. C’è una violenza cieca in ogni proiettile sparato per uccidere (e sono migliaia) e c’è uno shock continuo, un’angoscia crescente nella lotta fra la morte e il desiderio di vita.
Si può dedurre quali siano le parti e le ideologie a confronto, “che tipo di americani” siano le persone raccontate, per citare una battuta di Jesse Plemons nel momento più intenso nel film. Eppure Civil War è proprio pensato per evitare qualsiasi schieramento, se non il più ovvio, quello pacifista.
Non c’è un programma politico o una spiegazione delle cause, tutto inizia direttamente al fronte e viene raccontato dall’obiettivo delle macchine fotografiche, vicine all’azione ma lontane dalle sue motivazioni.
La storia nella storia: lo sguardo del reporter
Protagonisti sono quattro giornalisti nel pericoloso viaggio in auto verso Washington e la Casa Bianca. Lee (Kirsten Dunst) è una celebre fotoreporter della Magnum, Joel (Wagner Moura) è il redattore di Reuters che lavora in coppia con lei, Sammy (Stephen McKinley Henderson) è una firma storica del New York Times e mentore di Lee, infine Jessie (Cailee Spaeny) è una giovanissima fotografa che entra nel gruppo all’ultimo momento per seguire Lee, di cui è ammiratrice.
Diventa subito chiaro, dunque, che la seconda e parallela linea narrativa di Civil War è la rapida formazione sul campo di Jessie. Curiosa di natura e soprattutto dotata di un grande talento, Jessie è una brava fotografa ma ciò che le manca è l’esperienza, la capacità di separare l’emozione dallo scatto.
Bellissima è la scena, infatti, della prima fotografia che scatta a un soldato che le muore davanti agli occhi. Garland dilata il tempo, sottolineando quanto quel momento inizi a cambiare l’intero sguardo di Jessie sul mondo. Come una spugna, la ventenne assorbe tutto ciò che i tre giornalisti veterani le insegnano con il loro lavoro, trasformandosi alla fine in un personaggio nuovo e in una versione di sé che ingloba anche la stessa Lee.
In breve
Nell’obiettivo della macchina fotografica, così come in quello della macchina da presa, resta perciò il senso di Civil War. Un film che è quasi un’ode al mestiere del reporter, racconta in realtà l’impossibilità di una vera oggettività. Racconta che ogni inquadratura è una scelta ed è anche una decisione sofferta.
Premere il pulsante dell’otturatore a volte equivale a premere un grilletto, esattamente come dice Östlund. Non a caso il verbo in inglese è lo stesso, to shoot. E Civil War racconta anche questa lotta interna e straziante, per qualsiasi cosa sia la “verità” in un’immagine.
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