Se gli Stati Uniti d’America hanno in Costituzione il diritto alla ricerca della felicità, quest’ultima in Bhutan è misurata da tempo con l’Indice di Felicità Interna Lorda. Ma si può essere felici anche senza programmi tv, connessione a internet, commercio globale e, soprattutto, senza quella che in Occidente chiamiamo democrazia? Al netto della risposta, il primo merito di un film come C’era una volta in Bhutan (The Monk and the Gun, dal 30 aprile in sala per Officine Ubu) è quello di porre la domanda.
E di farlo proprio oggi, mentre la retorica dello scontro fra civiltà, e la presunzione di superiorità della nostra, alimenta guerre, militarizzazione di economie e coscienze, complicità in massacri (che è sempre più difficile non chiamare genocidi), oppressioni e repressioni volte a sostenere privilegi e gerarchie (neo)coloniali sempre più oscene e insostenibili.
Il nuovo lungometraggio scritto e diretto da Pawo Choyning Dorji (proposto per gli Oscar 2024 e presentato, tra i tanti festival, a Telluride, Toronto e Roma) ci invita a fare l’opposto. Ad aprirci, culturalmente più e prima che finanziariamente, mettendo in discussione qualche pregiudizio. Non con la perentorietà di un manifesto programmatico né col moralismo di un sermone, ma con la delicatezza giocosa di una commedia politica sospesa come una fiaba e insieme dinamica come un apologo efficacemente calato nel suo momento storico.
Elezioni (simulate) e paradossi
È il 2006, e nel Paese del titolo (un territorio da meno di un milione di abitanti, incastonato tra la Cina e l’India, senza sbocco sul mare ma con la vastità dell’Himalaya a nord) è arrivata la rivoluzione della modernità: programmi sul piccolo schermo da ogni angolo della Terra, allaccio alla rete e, dopo l’abdicazione volontaria del re, le prime votazioni per far decidere al popolo chi lo governerà. Qualcosa di talmente inedito che ci si domanda se “elezioni” sia il nome di una malattia. Meglio allora organizzare una simulazione per abituare la gente alle nuove idee e procedure, con tre schieramenti a contendersi le preferenze: blu, per la libertà e l’uguaglianza, rosso, per lo sviluppo industriale, giallo, per la conservazione.
Una funzionaria (Pema Zangmo Sherpa), venuta nel piccolo centro rurale di Ura a supervisionare il buon esito dell’esperimento, ricorda che in tante parti del pianeta le persone lottano per ottenere questi diritti. «Ma, se noi non dobbiamo lottare per averli, forse non ne abbiamo davvero bisogno», ribatte una donna del posto che, confessa, stava meglio prima. Ora invece la famiglia è spaccata sul partito da sostenere, e il marito talmente preso dalle votazioni che non trova più nemmeno il tempo di comprare una gomma da cancellare alla figlia piccola, a sua volta emarginata dai compagni di scuola per le scelte politiche del genitore. Del resto, sono in molti a non capire perché ci si dovrebbe azzuffare in favore dell’uno o dell’altro competitor, come li istruiscono di fare i promotori del nuovo sistema, addirittura incitandoli a gridare più forte e parlarsi sopra nella messa in scena di un dibattito tra candidati.
I dubbi e le preoccupazioni sono anche quelli di un anziano Lama buddhista locale, che però ha un piano. E, senza spiegare il suo intento, dispone al giovane allievo Tashi (Tandin Wangchuk) di procurargli, per il giorno della Luna Piena (data delle elezioni), delle armi. Un articolo talmente difficile da reperire per un bhutanese comune, che il religioso deve accontentarsi di un fucile ormai ridotto a pezzo d’antiquariato. E su cui, non a caso, ha messo gli occhi un collezionista americano (Harry Einhorn), disposto a scambiare quel vecchio oggetto con qualcosa di più aggiornato da importare clandestinamente. Magari degli AK-47, gli stessi usati da James Bond in un film la cui visione ha ambiguamente affascinato il monaco. Ma, ammesso che lo scambio riesca, cosa vorrà farci la sua guida spirituale?
Un’(anti)epica della contraddizione e della pace
Il regista, che già col precedente Lunana: il villaggio alla fine del mondo ci aveva mostrato la complessa specificità del Bhutan, segue questi interrogativi e personaggi, immergendoci ancora nella dialettica tra città e campagna, cambiamento e tradizione, promesse e chimere dei modelli figli di una parte di mondo (la nostra) e saperi millenari di un’altra. Il suo narrare ha il respiro ampio (anche nelle inquadrature aperte alla vastità del paesaggio) di un’epica anomala e straniante, fatta non di eroi e battaglie ma di ironia, equivoci e confronti (anche esilaranti) tra punti di vista differenti. Cantando la (ri)fondazione di una comunità senza tacere le contraddizioni su cui poggia (e poggiamo).
E suggerendo, nella risoluzione della vicenda, un’alternativa poetica e politica non solo al pasoliniano “sviluppo senza progresso”, ma anche a un progresso (o presunto tale) calato dall’alto senza davvero tenere conto della storia, della cultura e degli equilibri di una società. Un’alternativa che passa, non solo metaforicamente, dalla rinuncia alla violenza delle armi, con cui troppo spesso si è esportata nel sangue una democrazia di cartapesta. Come quella che rischia di diventare (anche) la nostra.
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