C'era una volta in America, Lucky Red, Leone Film Group
C'era una volta in America, Lucky Red, Leone Film Group

Nel 1984 il regista Sergio Leone, consacratosi come uno dei più grandi maestri del cinema e del genere western in particolare, distribuì quello che sarebbe divenuto il suo ultimo film: C’era una volta in America.

Basandosi sul romanzo The Hoods del criminale Harry Grey, con un cast stellare che includeva Robert De Niro come protagonista, James Woods, Elizabeth McGovern, Jennifer Connelly e Joe Pesci, Leone si cimentò per la prima volta nel genere gangster, creando un film pervasivo e poetico, tra i più importanti e acclamati di sempre nella storia del cinema.

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Dal passato puoi scappare ma non nasconderti

Attraverso un montaggio non lineare, che ci sbalza avanti e indietro nel tempo del racconto, ricostruiamo la storia di David “Noodles” Aaronson (Robert De Niro) che insieme al suo amico Maximilian “Max” Bercoviz (James Woods) e a un gruppo di amici/teppisti del Lower East Side di New York, mette su una gang mafiosa che diventerà potente negli anni del proibizionismo.

La storia criminosa di Noodles e Max si intreccerà con il nascente sindacalismo e la controversa storia politica di quella fumosa America degli anni ‘30. La loro epopea di violenza si mescolerà inoltre con le ambizioni romantiche del primo e quelle di potere del secondo.

Ma ogni impero lucente conosce prima o poi una fine. La strada lastricata di ferocia e testardaggine di Noodles finirà col franargli sotto i piedi (Noodles è un “perdente” secondo il regista stesso), e un errore dopo l’altro egli si ritroverà nel futuro più vecchio e infinitamente più solo. Il suo passato irto di macerie lo metterà con le spalle al muro fino all’ultimo istante.

C’era una volta in America racconta un sogno di potere senza soddisfazione, dove la tracotanza e l’irruenza di Noodles lo annientano piano piano; la sua illusoria figura granitica verrà soppiantata dal luciferino Max, la cui storia si attorciglierà con quella di Noodles fino alla fine.

“Fat” Moe Gelly: “Io avrei puntato tutto su te”
Noodles: “E avresti perso”

C’era una volta in America, Lucky Red, Leone Film Group

Changing New York

Il film racconta una città attraverso la vita di un uomo; mostra una New York che ha ben poco della terra promessa che sognano i migranti che immaginano l’America nelle notti sull’Atlantico.

Gli Slums e i Tenements di New York, così come li fotografò a fine ‘800 Jacob Riis, risorgono potenti in una città che si affaccia all’opulenza dei ruggenti anni ‘20 e poi al proibizionismo, ma che porta ancora queste mastodontiche costruzioni popolari come cicatrici sul proprio skyline.

La fotografia del film racconta l’infanzia di Noodles rifacendosi alle tinte giallastre dei dagherrotipi, mescolando lo stile al ricordo di un’epoca tramontata. L’infanzia di Noodles sarà per sempre bloccata dalla sua parentesi carceraria, impedendogli di maturare come persona.

Noodles, Max e i loro amici sono figli di migranti dell’Est Europa, e sono i primi delle rispettive famiglie ad abbandonare le loro chiusure mentali e le tradizioni. La generazione di Noodles è la prima a passare dalla cultura dei genitori a quella americana, a compiere una sorta di ribellione generazionale (non a caso una delle epoche storiche del film è il 1968).

La loro città è quella New York nel pieno del suo cambiamento architettonico, che muta volto a distanza di poche settimane. Leone si rifece molto al libro di Berenice Abbott, Changing New York, le cui foto tenevano traccia del continuo trasformarsi dei palazzi e delle vie della città.

La scena più famosa del film, l’aggressione di Bugsy alla piccola gang appena costituitasi, si ambienta nel quartiere di Dumbo, Brooklyn, con il maestoso Manhattan Bridge sullo sfondo, colto in una prospettiva che è ripresa dalla fotografia della Abbott, Pike and Henry Streets, Manhattan. March 6, 1936.

(Per approfondire l’argomento, Lorenzo Marmo, Street photography. La modernità, New York, il cinema, Mimesis/Aurora, 2023)

Al di qua del postmoderno?

Gli anni ‘80 sono un periodo di forti assestamenti culturali e intellettuali. Nel 1979 esce La condizione postmoderna, di François Lyotard, e inizia così il dibattito sul postmoderno nelle arti. Ma nell’84 siamo in realtà in un momento di sospensione culturale, specialmente nel cinema. Gli anni del modernismo, della violenza e della contestazione sociale e politica sono ormai quasi finiti, e il pubblico è tornato a sognare grazie a film come Star Wars (1977, George Lucas) ed E.T. (1982, Steven Spielberg).

L’edonismo reaganiano comincia a svilupparsi pienamente, e una sensazione di benessere e di pace si diffonde nella popolazione statunitense.

In questa epoca di transizione gli USA cominciano a studiare loro stessi e la loro cultura. La storia del cinema comincia a svilupparsi secondo una sequenza di periodi. Tuttavia il postmoderno è acerbo, ancora non pienamente dilagato; o forse, com’è proprio del postmoderno, è già entrato platealmente senza che nessuno se ne accorgesse.

In questo periodo di riflessione artistica, Leone coglie la cifra di un decennio che funge da ponte tra i moderni anni ‘70 e i postmoderni anni ‘90: la memoria del tempo trascorso. L’America negli anni ‘80 ritrova il suo mito e si autoconvince di essere un popolo benedetto dalla storia, una nazione mitica e mitologica, che ha conquistato l’occidente due volte (Il West della frontiera prima, e l’Ovest/Occidente della Guerra Fredda dopo).

Con questo film, Leone mostra cosa avviene a metà di queste due conquiste, esattamente come a cavallo tra la vittoria nella seconda guerra mondiale e la vittoria nella Guerra Fredda si pongono gli anni ‘80.

La memoria che si annoda su se stessa

Il tema principale del film è la memoria sotto molte accezioni diverse. Sebbene si parli spesso di genere gangster per C’era una volta in America, in maniera più esatta si dovrebbe parlare di “memoria del genere gangster”.

Leone racconta il proibizionismo tramite i film di quel medesimo periodo, attingendo alla storia del genere stesso e mediandolo con una sensibilità rinnovata. Le storie dei gangster che ormai sono passate al cinema, da Gangster Story (1967) a Il Padrino (1972), non consentono più l’ingenuità dei film di Hawks, Curtiz e Huston, o quegli eroici furori di James Cagney e Edward G. Robinson. A sparire è soprattutto la redenzione per queste figure, come ci mostra Noodles con la sua condotta che è destinato a pagare fino all’ultima scena.

Leone adattò i classici di quell’epoca a degli occhi più moderni, e questo perché il genere gangster forse più di tutti gli altri generi cinematografici racconta quegli specifici anni negli Stati Uniti. Racconta la violenza di un Paese affamato e in piena espansione, ma anche gli anni in cui le stelle del cinema diventano icone consolidate della cultura americana (non più solo moda dunque).

Le contraddizioni che intessono la storia e la cultura statunitense emergono nel film attraverso la vita di Noodles; lo stesso De Niro era stato consacrato come star a livello mondiale da un film di gangster, Il Padrino – Parte II (1974).

“È un film sul tempo. È un film dove il protagonista reale è il tempo, e gioca un ruolo determinante.”

(Sergio Leone al CSC, YouTube)

Sospensione dell’immagine

L’ideale composizione ad anello del film, che si apre in una fumeria d’oppio e si chiude nella stessa, fanno suonare un campanello d’allarme nello spettatore riguardo l’affidabilità di cosa stia vedendo. Nel momento in cui Noodles è sotto l’effetto del narcotico, parte del film (o addirittura tutto) può diventare un colorato affresco allucinatorio derivato dall’oppio. Qui svanisce la certezza di star raccontando tutta la storia di Noodles, che è una persona non chiara fino in fondo anche con se stessa, al punto da anestetizzarsi in una fumeria per dimenticare le pene che lo tormentano costantemente.

E in effetti tutto ciò che è ambientato nel 1968 è un lungo e doloroso calvario della memoria di ciò che è stata la sua vita, e soprattutto di ciò che è ancora vivo per tormentarlo.

Questa forte cesura a dividere la storia del protagonista in ciò che è reale da ciò che è un sogno impedisce però di poter credere veramente a tutta la storia di Noodles. Siamo attratti dalle sue vicende ma sospesi nel giudizio, incapaci veramente di sapere cosa è onirico e cosa no. Lo stesso Leone sposò l’idea di un Noodles prigioniero degli anni ‘30 e di un sogno indotto dalla droga; i co-sceneggiatori non erano però d’accordo con la sua lettura.

Lo spettatore è libero di fare sua questa lettura del film, come di credere che tutto sia reale; in fin dei conti in un film di per sé nulla è reale.

La famigerata versione statunitense

“I vincenti si riconoscono alla partenza”, dice Noodles nel 1968 a “Fat” Moe. Una frase che paradossalmente non vale per questo stesso film, almeno in negli USA. La versione statunitense del film fu decurtata di quasi un ora e mezza, stravolgendo anche il montaggio originale e ottenendo così moltissime critiche negative e uno scarso successo.

Nel frattempo però la versione internazionale riscosse successi ovunque; nel raccontare questo mondo di contraddizioni a stelle e strisce, Leone incappò proprio in una di queste.

La diffidenza dei produttori statunitensi verso l’intelligenza del pubblico americano, unita alla fame di facili profitti economici, fu deleteria per molti film nella storia del cinema, ma la vicenda del montaggio di C’era una volta in America forse rimane una tra le più proverbiali di sempre. Ad oggi è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi film mai realizzati.

Il sogno di un’epoca e di un uomo

Sergio Leone si definì spesso un narratore di favole, ma il suo stile nel raccontarle fu un realismo pessimista parzialmente attenuato dalle meravigliose musiche di Ennio Morricone, composte addirittura prima dei film stessi e ascoltate sul set al momento delle riprese.

Un tiro alla fune, il loro, tra la cruda realtà e un poetico sognare. Le storie di Leone, almeno nella seconda Trilogia del tempo, ebbero come protagonisti infatti dei disillusi sognatori. Persone messe in ginocchio dalla vita ma comunque desiderose di andare avanti.

Leone in C’era una volta in America racconta una grande illusione di amore e di potere; il suo film è un pietoso e tenero sguardo sulle contraddizioni che fecero dell’America un mito. Andate a vederlo il prima possibile.

C’era una volta in America, Lucky Red, Leone Film Group

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Francesco Gianfelici
Classe 1999, e perennemente alla ricerca di storie. Mi muovo dalla musica al cinema, dal fumetto alla pittura, dalla letteratura al teatro. Nessun pregiudizio, nessun genere; le cose o piacciono o non piacciono, ma l’importante è farle. Da che sognavo di fare il regista sono finito invischiato in Lettere Moderne. Appartengo alla stirpe di quelli che scrivono sui taccuini, di quelli che si riempiono di idee in ogni momento e non vedono l’ora di scriverle, di quelli che sono ricettivi ad ogni nome che non conoscono e studiano, cercano, e non smettono di sognare.