Le Olimpiadi di Parigi 2024 sono ben oltre il giro di boa e ci hanno già regalato una quantità inesauribile di meme su Snoop Dogg, qualche polemica di troppo e tante, tante emozioni. Eppure, proprio mentre tutto sta per finire c’è un attesissimo debutto ancora da scoprire.
La 33ª edizione dei Giochi Olimpici, infatti, il 9 e il 10 agosto introduce per la prima volta la breaking, ovvero quella che i ragazzi e le ragazze degli anni Novanta chiamano ancora break dance. E in questa storica occasione, ricordiamolo, è presente anche l’Italia con Antilai Sandrini, classe 1997.
Una nuova disciplina che arriva un po’ a sorpresa, annunciata solo due anni fa, e che solo in apparenza prova ad attirare l’attenzione della Gen Z. Perché, ammettiamolo, se c’è una generazione ossessionata dai toprock e dalle powermove, è senza dubbio quella dei Millennials, nonostante l’hip hop stesso sia molto più vecchio (ha da pochi mesi festeggiato i suoi primi cinquant’anni, con grandi celebrazioni anche durante i Grammy).
Il motivo? È Fear of a Black Planet dei Public Enemy, prima di tutto. L’album che nel 1990 fa esplodere l’hip hop nel mainstream, strascinando poi con sé, fuori dalla loro nicchia, anche Dr. Dre e il già citato Snoop Dogg. O la storica rivalità fra il West Coast hip hop di Tupac e l’East Coast hip hop di B.I.G., finita tragicamente per entrambi, nel 1996 e nel 1997.
Eppure non basta. C’è qualcos’altro che lega ancora più a fondo i trentenni di oggi (anno più, anno meno) alla cultura hip hop e a tutto ciò che vi gravita attorno, breaking compresa. Quel qualcosa è il cinema, che come sempre crea coscienza collettiva.
Se provate, infatti, a nominare almeno cinque film sull’hip hop ve ne verrano in mente almeno dieci. Noi abbiamo scelto di ricordarne due, per celebrare il debutto olimpico della nostra b-girl Sandrini e i dance movies, che in fondo non passeranno mai di moda.
Save The Last Dance (2001), quando Sara Johnson scoprì di saper ballare l’hip hop
Accade fin troppo spesso che i dance movies subiscano un duplice destino: diventano cult indiscussi, ma al tempo stesso raccolgono tutto ciò che di più effimero ha da offrire il momento storico che ne vede l’uscita. In primis la musica, per poi passare alla moda, tagli di capelli, abiti, e a tutti quei riferimenti culturali che funzionano nel qui e ora, ma perdono smalto in seguito. Ma chi parla di didascalica dicotomia narrativa, cliché e luoghi comuni riferendosi a Save The Last Dance, è sicuramente qualcuno che non è stato investito direttamente dal fascino del film con Julia Stiles. Il film del 2001 riflette quel fascino legato al tempo che fa del genere una rappresentazione unica.
Figlio della MTV generation (e non a caso prodotto da MTV Films) ha certamente molti difetti, ma è così irresistibile da far saltare ancora dalla sedia chi nei primi anni ’00 ballava hip hop, indossava cargo pants e portava treccine, ma anche chi si scioglie a vivere una storia d’amore teen dove l’estrazione culturale e i traumi del passato si annullano nella prospettiva di un futuro insieme.
Ma partiamo dal principio: Sarah (Julia Stiles) vuole entrare a tutti i costi alla Juilliard di New York, sua madre però rimane coinvolta in un incidente stradale proprio mentre sta correndo per non perdere l’audizione della figlia. La ragazza smette di ballare, il lutto è collegato alla danza e non riesce a scindere uno dall’altra. Si trasferisce a Chicago a casa del padre, con il quale ha sempre avuto un rapporto superficiale. Il quartiere in cui si trova è prevalentemente nero, e per tutto il film la questione razziale avrà uno spazio di rilievo, giocando sul fatto che Sarah sia veramente molto molto bianca rispetto ai suoi nuovi compagni di scuola, sia nei modi che nel look. L’amicizia con Chenille (Kerry Washington), ragazza madre e piena di problemi con il suo compagno, farà ritrovare a Sarah l’amore per la danza, non classica, bensì hip hop, trovando nel fratello della sua nuova amica, Derek (Sean Patrick Thomas) un maestro e il ragazzo per cui perdere la testa. Lui la convince a ripetere l’audizione, lei crede in lui che vuole diventare un pediatra e lasciarsi alle spalle il ghetto, i pregiudizi e il razzismo. La coreografia finale è l’apoteosi del loro incontro.
La tematica stessa dell’incontro viene sviluppata anche attraverso i generi musicali: inizialmente Sarah si identifica con la musica classica, suo padre con il jazz e Derek con l’hip hop. Questi tre generi sembrano non incontrarsi mai, prigionieri di preconcetti e settarismo. Nel corso del film però assisteremo a una progressiva fusione, che avvicinerà i personaggi e riporterà la danza nella vita della protagonista come mezzo di terapia e di autoaffermazione. Così dei linguaggi apparentemente inconciliabili si tradurranno in un linguaggio unico, lontano dalla violenza della strada e dagli stereotipi, ma soprattutto dall’idea che l’altro si fa superficialmente di noi.
Save The Last Dance ha tutto ciò che si può chiedere a un teen movie sulla danza, con in più la voglia di combattere la discriminazione, il tutto con outfit Y2K ricchi di bandane e salopette.
Step Up (2006), l’amore è il ritmo di un nuovo passo a due
C’è chi lo conosce a memoria e chi – ci dispiace per voi – ha perso un momento cult degli anni Duemila, non solo perché Step Up lancia nel mondo del cinema (e fa innamorare nella vita reale) i giovanissimi Channing Tatum e Jenna Dewan, ma perché dà vita a un lungo e inspiegabilmente ipnotico franchise destinato a rimanere nel DNA dei Millennials. Cinque film in totale, tutti identici, eppure non ne abbiamo perso uno, tanto da far guadagnare alla saga ben 630 milioni di dollari complessivi, in tutto il mondo.
È il primo capitolo, tuttavia, quello che resta ancora senza tempo, a distanza ormai di diciott’anni dall’uscita. Forse perché mantiene quell’atmosfera a cavallo fra gli anni Novanta e gli anni Duemila che da un lato ricorda film precedenti, come lo stesso Save the Last Dance e dall’altro prova a diventarne già una consapevole citazione, cercando complicità con un pubblico che conosce bene il tipo di storia che ha davanti.
Semplice, prevedibile, infallibile: il cattivo ragazzo (Tyler, che in fondo troppo cattivo non è) è attratto dalla più brava e promettente allieva dell’accademia di danza che lui stesso ha vandalizzato, trovandosi costretto a lavorarci per ripagare il danno. Caso vuole che il partner di lei, Nora, non possa ballare a causa di un infortunio a poche settimane dal saggio che potrebbe lanciare la carriera della ballerina. Così Tyler, pur di trascorrere più tempo con Nora, rinuncia ai larghi jeans e indossa un calzamaglia, senza rendersi immediatamente conto che, in fondo, lo fa più per se stesso che per la ragazza.
La danza classica entra nelle routine di Tyler, la breaking irrompe nelle eleganti coreografie di Nora. La metafora è chiara. Attraverso la danza uno va incontro all’altra e viceversa. Tyler e Nora si innamorano e, innamorandosi, si trasformano a vicenda, desiderando somigliarsi un po’ di più a ogni passo. E così la loro danza, alla fine, diventa un inedito pas de deux che racconta qualcosa di entrambi. Sullo sfondo, superficiale ma mai dimenticato, resta il discorso sociale e di classe, che si riflette nelle due diverse discipline di ballo.
L’accademia rappresenta un privilegio, una possibilità preclusa ai ragazzi di strada come Tyler, che ballano sull’asfalto o nei club notturni. Le raffinate salette di prova contrastano con i caotici cypher e le battaglie delle crew. E nonostante il lieto fine, resta chiaro che per molti altri Tyler e molte altre Nora non ci sarà mai un simile e fortunato incontro.
Ma almeno per un paio d’ore è permesso sognare. A ritmo di musica, ovvio.