Cinico, ironico, spietato, esilarante: Boris è diventato un vero e proprio mito, al punto che alcune espressioni ricorrenti sono diventate oggetto di meme. O intere battute sono entrate a far parte del nostro linguaggio comune. La serie ci ha regalato frasi mitiche come “Cagna maledetta!” o “Ed è coffee break, signori!!” e personaggi indimenticabili. Primo fra tutti il regista René Ferretti, interpretato da Francesco Pannofino, o l’assistente alla regia Arianna, a cui dà il volto la bravissima Caterina Guzzanti. Entrambi entrati di diritto nell’immaginaria “hall of fame” della televisione italiana, insieme agli attori che danno loro il volto.
Insomma, se tendenzialmente le serie tv italiane ottengono poco successo fra i giovani, Boris fa decisamente eccezione, dal momento che è diventato un fenomeno mediatico a tutti gli effetti.
Il segreto del successo di Boris
Non solo lo show ha ottenuto grande successo in prima trasmissione (dal 2007 al 2010), ma lo riscuote ancora, a distanza di anni, al punto che più di una volta si è pensato di rinnovarlo per una quarta stagione.
Il vero segreto del successo di Boris, in realtà, è molto semplice: mostra una realtà che tutti conosciamo molto bene e in cui possiamo immedesimarci. È un processo che inizia attraverso il vero e proprio protagonista, lo stagista Alessandro, interpretato da Alessandro Tiberi. Il ragazzo è un giovane di belle speranze, che coltiva il sogno di diventare regista. Quando riesce a ottenere un lavoro, seppure piccolo, sul set della fiction Gli Occhi del Cuore non sta più nella pelle, perché pensa che si tratti della sua grande possibilità. Ben presto tuttavia si accorgerà che la realtà è ben diversa. Sarà infatti costretto a lavorare praticamente a titolo gratuito, verrà bullizzato, sgridato e, in gergo, “schiavizzato”.
I suoi incarichi di certo non sono di alta responsabilità, spesso si limitano a preparare caffè per la troupe. Ma perché tutto questo fa così ridere i giovani? Perché sono proprio loro che si sentono come Alessandro.
Siamo stati tutti Alessandro lo stagista
Quante volte abbiamo accettato un lavoro malpagato, ai limiti dello sfruttamento, pur di garantirci una minima base economica, o per “fare esperienza”? Quante volte abbiamo provato a fare domanda per lavori che veramente ci attraevano, ma siamo stati respinti perché si cerca sempre gente che abbia già lavorato nel settore? Ma il punto è: se tutti assumono solo persone che abbiano già esperienza, come si fa a ottenerla?
E questo è solo uno dei tanti paradossi del lavoro in Italia che Boris analizza con spietata lucidità. Così come mostra amaramente il netto stacco generazionale che caratterizza gli ambienti di lavoro. Se infatti i giovani sono animati da grandi speranze e hanno ancora l’ingenua convinzione di poter cambiare le cose, i più adulti sono stanchi, svogliati, ormai rassegnati a un sistema stantio che non funziona più ed è tutto meno che giusto.
Tra la disillusione di René e l’efficienza di Arianna
Quest’ultimo aspetto emerge in particolare nel rapporto che c’è fra Arianna e René. Lui è il classico regista frustrato che sognava di fare film d’autore e si ritrova a dirigere una fiction scadente e low budget per casalinghe annoiate. È un personaggio cinico, disilluso, che non tenta neppure di realizzare un prodotto di qualità. Gli basta portare a casa il quantitativo di girato imposto dalla produzione a fine giornata e poco importa come sia stato fatto. Tant’è vero che, quando è particolarmente di fretta, magari perché stanco o distratto, non si fa problemi a etichettare come “ottima” una scena fotografata male e recitata anche peggio.
Arianna, dal canto suo, nonostante le continue frustrazioni, ancora crede nel suo lavoro. La ragazza è fredda e brusca, ma anche lucida ed efficiente. È lei che prende in mano le redini della situazione quando sfugge al controllo e cerca di imporre anche a René la sua grande disciplina. L’uomo, d’altra parte, non le dà retta e va dritto per la sua strada, insistendo a realizzare un prodotto imbarazzante e a darlo in pasto agli avidi telespettatori italiani. E, nonostante a volte il regista si manifesti seccato davanti all’intransigenza di Arianna, la ragazza è l’unica persona di cui si fidi veramente e la sola di cui gli interessa l’opinione. Proprio perché è una donna forte e determinata, animata da un amore per il lavoro e da una forza di volontà che, nel suo caso, è andata perduta da parecchi anni.
La vecchia guardia contro l’entusiasmo dei giovani
Un altro personaggio che invece mostra in modo spietato la frustrazione delle “vecchie” generazioni è il direttore della fotografia Duccio. Amico e collega di lunga data di René, anche lui sognava un lavoro decisamente più gratificante. Un tempo forse aveva talento, ma ormai non se lo ricorda più neppure lui. È un uomo ormai stanco della vita, che odia il suo lavoro, il cui unico interesse è quello di portare i soldi a casa per poter comprare cocaina, di cui fa ampio uso. Il suo solo contributo al set è quello di “aprire” tutte le luci, regalando così a Gli Occhi del Cuore quella fotografia “smarmellata” che è un po’ il suo marchio di fabbrica.
Boris e il ritratto ironico del lavoro in Italia: il “sistema” delle raccomandazioni
Che il lavoro in Italia sia poco meritocratico, specialmente nel mondo dello spettacolo, è un po’ un segreto di Pulcinella. Tutti lo sanno, ma difficilmente è una cosa che si ammette. Boris tuttavia non si fa alcun problema a parlare del sistema delle raccomandazioni. Ed è così che un’attrice senza alcun talento, e che per giunta crea problemi sul set, viene introdotta ne Gli Occhi del Cuore perché è figlia o moglie di qualche uomo particolarmente potente. Oppure diventa impossibile licenziare un membro incapace della troupe perché è amico del politico di turno.
Boris non solo mette a nudo queste ipocrisie, ma riesce anche a scherzarci su, in un modo totalmente privo di pietismo. Così come non si fa problemi a sottolineare anche la triste condizione degli attori in Italia, spesso costretti ad accettare parti al di sotto del loro talento. “Maestro, come fa a passare dal Macbeth a Gli Occhi del Cuore?” Chiede genuinamente interessato lo stagista Alessandro a un grande attore shakespeariano che si ritrova a interpretare un piccolo ruolo nella fiction in cui lavora. “Fra le due c’è una cosa che si chiama mutuo“. Replica tristemente quest’ultimo, prima di andare sul set.
L’amara familiarità di Boris
Si tratta di una triste realtà, che in Boris viene mostrata in chiave comica e risulta fin troppo familiare a molti. Troppo italiana, come direbbe Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti). Non è un caso che la serie sia particolarmente amata da coloro che lavorano nel mondo dello spettacolo: i set delle fiction italiane sono davvero così. Le dinamiche di lavoro vengono sì riprodotte in una chiave comica e demenziale, ma hanno più di un fondo di verità. Al punto che non è infrequente che gli addetti ai lavori, sui set, canticchino fra loro la sigla de Gli Occhi del Cuore.
Di base, dunque, Boris non ha nulla di divertente: lo scenario che viene offerto ai nostri occhi è squallido, privo di speranza. La grandezza di questa serie è che mostra tutto questo in chiave ironica, senza però sminuire gli innegabili problemi del mondo del lavoro. Anzi, lo show dà molto su cui riflettere, ma lo fa senza che questo possa essere una scusa per piangersi addosso. Semplicemente, quando si torna casa dopo una lunga giornata di lavoro in cui si è stati prevaricati e, diciamocelo, anche un po’ sfruttati, non è male trovare un modo per riderci sopra, pur senza abbandonare la consapevolezza della nostra condizione e soprattutto senza perdere la voglia di cambiare le cose.
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