Sul solco di The Last of Us, Borderlands, diretto da Eli Roth, insegue il filone delle nuove trasposizioni del mondo videoludico. Ne esce una Suicide Squad minore, un prodotto scialbo e dozzinale, che non vanta nemmeno il pregio dell’ambizione
Era dal thriller Knock Knock (2015) che Eli Roth non si avventurava all’infuori del perimetro orrorifico, a patto che lo sciagurato rifacimento de Il Giustiziere della Notte del 2018 con Bruce Willis protagonista possa essere contemplato.
Uno degli interpreti-chiave del body horror statunitense degli anni zero del 2000 (da Cabin Fever all’immancabile saga di Hostel) si briga qui di un’operazione commerciale alquanto scivolosa già dai propositi: Borderlands, libero riadattamento dell’omonima serie videoludica della Gearbox Software, si presenta da subito come un action corale dalle tinte distopiche, più interessato a ricalcare stilemi già invalsi tra gli appassionati del genere, che a sorprendere con spunti e soluzioni di rottura o, quanto meno, elaborate.
Borderlands, il cast d’eccezione non basta
Protagonisti della vicenda sono una masnada di outsider, o antieroi di ogni conio: mercenari, cacciatori di taglie disillusi ed ex galeotti. Insieme cooperano per restituire al magnate Atlas la figlia scomparsa. A spiccare nello sgangherato team-up è Lilith, bounty killer interstellare, impersonata da una granitica Cate Blanchett, in vesti apparentemente inedite ma che, in verità, altro non fanno che ricalcare la macabra (e ben riuscita) solennità di Hela in Thor: Ragnarok di Taika Waititi.
Lilith viene suo malgrado spedita nel pianeta Pandora, meta tra le più perigliose dell’universo galattico delineato da Roth.
Man mano il roster andrà a implementarsi. Primo ingresso in scena sarà del robot Claptrap, vivace automa doppiato da Jack Black, dall’estro ironico per lo più discutibile. La performance eccentrica e gratuitamente verbosa ricorda a tratti la fallimentare scommessa di George Lucas sul personaggio di Jar Jar Binks per i prequel di Guerre Stellari; differenza fondamentale sarà forse dettata dal lascito nella memoria collettiva, cosa a cui Claptop sembra essere difficilmente designato, a differenza della creatura dell’allora casa Fox.
Ertosi a vassallo bionico della valorosa cacciatrice di taglie, il robot la accompagnerà nei primi tragitti, fino all’incontro con gli altri componenti: Tiny Tina, l’adolescente amante di esplosivi nonché obiettivo di Lilith, fino al mercenario Roland, interpretato da Kevin Hart, il titanico Krieg e per finire Tannis, metodica scienziata a cui presta volto e corpo l’intramontabile Jamie Lee Curtis.
Imprevisti e accadimenti porteranno il gruppo a ritrattare le loro proprietà, dirottando i loro interessi verso un altro traguardo: un imprevedibile tesoro nascosto, una reliquia dal valore inestimabile, il cui segreto è a sorpresa interconnesso con uno dei protagonisti.
Il citazionismo di Borderlands non premia
Inanellando i vari elementi anticipati, possiamo da subito intuire i diretti riferimenti stilistici del film, sebbene forse sarebbe più lecito parlare di plagi o ammiccamenti spudorati: dal goffo tentativo di inscenare una Suicide Squad alternativa targata Lionsgate, proponendo un assembramento sgangherato di antieroi poco accattivanti, passando per il setting sospeso tra il primitivistico e il futuribile, vagamente speculare all’immaginario di Neill Blomkamp (in film come Chappie, 2015, si problematizza però il tema della convivenza tra droidi e umani, senza per questo rinunciare all’ironia), o all’universo narrativo di Mad Max (ponendosi il film di Roth cronologicamente vicino al recente prequel dedicato a Furiosa, le assonanze sono ancora più evidenti).
Tutto risuona in generale di già visto e prevedibile. Un pop-corn movie estivo che arranca addirittura nel suo tentativo (presumibilmente naturale) di intrattenere: l’ennesima e avvilente crepa della filmografia di Roth, ormai lontano dallo spirito promettente dei suoi esordi.