La vita di Billie Holiday ricostruita attraverso le interviste di Linda Lipnack Kuehl e il film di James Erskine
Un gemito roco dall’oltretomba, è così che viene descritta la voce di Billie Holiday da Linda Lipnack Kuehl, a suo modo co-protagonista del documentario di James Erskine. Sì, perché Billie è una storia nella storia: il racconto di un lavoro di ricerca minuzioso, interrotto da una morte misteriosa, e ripreso in tutto e per tutto, materiale originale compreso, per realizzare questo film.
Linda Lipnack Kuehl era una giornalista newyorchese (del Bronx per l’esattezza), attivista femminista che alla fine degli anni Sessanta scriveva per le maggiori testate della città. Si appassionò alla breve vita e alla storia di Billie Holiday, al punto da volerne scrivere una biografia. Riuscì a entrare in contatto con decine di amici, musicisti, cantanti che furono vicini alla grande cantante blues. Più materiale raccoglieva, più Linda si addentrava in un mondo che però non voleva essere scoperto, ben nascosto com’era nel passato.
Ma, come racconta la sorella Myra, Linda sentiva una profonda connessione con la figura di Billie, con il malessere che credeva di condividere con lei. Non fu mai in grado di finire il lavoro che la rapì per oltre otto anni. Fu ritrovata morta sotto la finestra della sua camera di hotel a Washington, nel 1978, in circostanze sospette, anche se archiviate come suicidio.
Tutte le registrazioni da lei effettuate vengono riprese da James Erskine e usate in forma pura. Senza cioè riprodurre visivamente alcuna scena. L’essenza del documentario risiede in queste voci che risuonano senza corpi, quella di Linda compresa, con un’unica ovvia eccezione: Billie. Per accompagnarle, Erskine decide solo di selezionare alcune delle fotografie più belle della cantante, digitalizzate e colorate dall’artista Marina Amaral. Questa scelta del colore si deve anche alla volontà di non appiattire una figura così possente e piena di vita come si mostra Billie Holiday in queste testimonianze. A interrompere le interviste sono solo le riprese delle esibizioni live della cantante.
Chi era veramente Billie Holiday
Eleanor Fagan, soprannominata Billie, nacque a Baltimora nel 1915. Viveva da sola con la madre in una condizione di povertà pressoché assoluta. Come molte fonti vicine confermano nel documentario, fu violentata da bambina e poi iniziò a prostituirsi. A quattrodici anni, quando debuttò all’Hot Cha di New York, aveva già vissuto una vita più dura di quanto si potesse immaginare. Sempre le interviste confermano che già a New York, forse prima, fumava (molta) erba, allora la sua unica dipendenza. Anche la più duratura, considerando che negli anni di maggior successo tutti i portieri dei palazzi della 52a strada di New York, dove si esibiva, ne nascondevano sempre un po’ per lei. Almeno così confermano i musicisti intervistati.
Dalle registrazioni emerge soprattutto il ritratto di una donna estrema e masochista, alla ricerca di emozioni e sensazioni intense. Sia attraverso l’alcol e le droghe sia attraverso il sesso. Non è un segreto che avesse molti amanti, donne e uomini. Anzi, nel documentario si accenna persino un collegamento tra la sua preferenza per le donne e l’incapacità di vedere il buono negli uomini. Un concetto, quest’ultimo, maturato sia dal rapporto di odio-amore tra la madre e il padre, sia dalle violenze subite. Ma è per lo più un’ipotesi (e un pregiudizio) degli intervistati.
L’amore tossico e violento con gli uomini, in effetti, contraddistingue spesso le sue canzoni e la sua vita, che poi erano un tutt’uno. Perché Billie Holiday non sapeva cantare altro che la verità. Colpisce una delle poche registrazioni in bianco e nero in cui mentre canta My man beats me… si vede chiaramente (anche senza il colore, in questo caso) il viso gonfio e la pelle sotto un occhio lacerata da un pugno.
The United States vs Billie Holiday
Le testimonianze raccolte alludono al fatto che la vita estrema di Billie Holiday fosse quasi una forma di auto-punizione, di masochismo appunto. Soprattutto nel rapporto con le droghe. Non ci sono testimonianze mediche e psicologiche a riguardo, tranne quella dello psichiatra James Hamilton che la definisce (secondo noi impropriamente) psicopatica, per intendere preda dei suoi impulsi. Era sicuramente tossicodipendente ma, come spesso accade, fu trattata da criminale anziché soggetto sociale debole, da proteggere. Soprattutto quando fu trovata con 60 grammi di eroina in auto la sua condizione si trasformò in un caso nazionale e, ovviamente, giudiziario.
The United States vs Billie Holiday è la formula con cui si fa riferimento all’inchiesta aperta a Filadelfia, dopo che Holiday fu inseguita sulla sua Cadillac (crivellata di colpi dalla polizia) e trattata come una gangster. Era già sotto il controllo della Narcotici, ma da quel momento divenne sorvegliata speciale. Era il 1947. Tempo dopo, una retata in casa le costò un anno e un giorno di prigione in cui, dicono le guardie carcerarie, non cantò nemmeno una volta. L’ossessione dei federali per Billie Holiday aveva però radici più profonde. Era una donna nera, libera e di successo: c’era gente che desiderava punirla anche solo per questo.
La persecuzione da parte della Narcotici fu così significativa nella vita della cantante che il regista Lee Daniels vi dedica un intero film, in uscita a breve. The United States vs Billie Holiday, con Andra Day e Trevante Rhodes (già visto in Moonlight) è previsto in sala per fine febbraio 2021.
Strange Fruit
In quanto donna e afroamericana, libera di ostentare uno stile di vita estremo, Bille Holiday attirò quindi su di sé attenzioni pericolose. Il vero elemento di rottura, imperdonabile agli occhi della società bianca del tempo, però fu un altro. Fu una canzone. Billie incise Strange Fruit per la prima volta nel 1939 e nei successivi vent’anni si rifiutò sempre di escluderla dalle sue esibizioni, nonostante le continue richieste. La cantava, imperterrita, al Café Society di New York guardando gruppi interi di avventori bianchi uscire dal night club inorriditi.
Perché mai? Perché Strange Fruit è un canto di rabbia e dolore contro i linciaggi ai danni dei corpi neri. Afroamericani bruciati, mutilati e soprattutto impiccati agli alberi, di cui diventavano appunto strani frutti appesi. Il documentario spiega molto bene l’importanza che questo brano aveva per Billie Holiday. Era una forma di resistenza civile, molto prima del Movimento per i diritti civili. Ogni volta che la cantava a New York scoppiavano vere e proprie rivolte. E lei al contempo si faceva immobile, interpretava il testo con un’intensità che pietrificava tanto il suo corpo quanto quello degli spettatori, catalizzando l’attenzione sulle espressioni del suo volto.
Una vita estrema
Alla fine Billie Holiday fu letteralmente consumata dalla sua stessa vita. Morì di arresto cardiaco a soli 44 anni, nel 1959. Erskine, fra il materiale fotografico, riesce a recuperare le ultime immagini che la ritraggono in studio di registrazione, scattate da Milt Hinton. Magrissima (si dice a causa del marito che spesso la privava del cibo) e consunta, con un bicchiere di vodka in mano. Ricoperta di croste e ripugnante, dice uno dei musicisti: l’ombra della morte. E in realtà è lei stessa a darci un epilogo che sa di addio. La registrazione di una vecchia intervista riprende la voce di Billie: “Perché le grandi cantanti jazz hanno sempre vita breve?” – “Beh, forse perché cerchiamo di vivere cento giorni in uno solo”.