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Beast - Credits Universal Pictures

Baltasar Kormákur, regista tra gli altri di Everest (2015) e Resta con me (2018), torna al cinema con Beast, un survival drama uomo vs. animale la cui parziale riuscita si basa interamente sulla buona costruzione della tensione delle singole scene.

Nate Samuels (Idris Elba), un dottore rimasto vedovo di recente, si reca con le due figlie, Norah e Mare, in Sudafrica: il viaggio (nel luogo dove la moglie è cresciuta) ha lo scopo di riavvicinare padre e figlie. Il loro rapporto infatti, a seguito della morte della madre e moglie a causa di un tumore, si è crepato e non poco, per ragioni che vengono presto chiarite. Il trio si incontra con Martin, amico di vecchissima data della donna, che li porterà a esplorare i dintorni, in un’escursione che si trasformerà in breve tempo in una lotta per la sopravvivenza, quando un leone sembra impazzire e diventare assetato di sangue umano.

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Nate Samuels (Idris Elba) in una scena di Beast – Credits Universal Pictures

Uomo e animale

L’ambivalenza tra la natura bestiale e istintuale dell’animale (o del mostro, o dell’alieno, o dell’Altro, spesso più supposta e data per scontata che reale) e la bestialità animalesca dell’uomo non è un tema nuovo alla letteratura e al cinema. Rientrano nel filone Frankenstein, E.T. – L’extraterrestre e Avatar, tre diversissimi esempi di come il diverso, nella forma estrema del non-umano, rappresenti per la sicurezza identitaria dell’uomo un pericolo da abbattere, quali che siano le ragioni specifiche che muovono gli aguzzini di turno.

Beast banalizza questo concetto e allo stesso tempo vi ibrida un discorso ecologista obbligato: forse è meglio che l’uomo, nel bene e nel male, non si immischi con gli affari della natura, non provi ad addomesticare ciò che non dovrebbe esserlo, perché l’imprevedibilità degli effetti, laddove l’equilibrio instauratosi venga meno, può essere dirompente e letale.

La violenza dell’uomo sull’animale, dell’uomo sugli altri uomini, e infine dell’animale sull’uomo, trova espressione nell’atto di sopraffazione, controllo e intrusione nel territorio che non ci appartiene, nel sovvertimento delle leggi della natura per assecondare la natura umana di dominio.

Tra action e psicologismi inutili

Come spesso accade, non si riesce a fare semplicemente un film survival nudo e crudo: il cuore di pura action al cardiopalma viene inscatolato in una trama più “seria”, inscritto in tematiche più “alte”. Come se, privato di queste, il film avesse meno senso di esistere. E se tale amalgama funziona benissimo in alcuni casi, qui scricchiola un po’. A fronte di una tutto sommato riuscita – per quanto banale – critica ecologica, il lato più personale e psicologico della storia manca di autenticità, e pesa in quanto percepito fortemente come aggiunta legittimatrice alla natura action di ciò che stiamo guardando.

La frattura di cui sopra tra padre e figlie è lì come appendice abbastanza inutile alla narrazione, poiché non crea situazioni di conflitto rilevanti. Perlomeno niente che non avrebbe potuto verificarsi con un incipit deprivato del trauma, del lutto, con una situazione di partenza pacificata, di una famiglia semplicemente in viaggio.

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Nate (Idris Elba), Martin (Sharlto Copley), Mare (Iyana Halley) e Norah (Leah Jeffries) in una scena di Beast – Credits Universal Pictures

Aggiungiamoci la performance per niente convincente di Idris Elba, che, complice una forzata ironia stridente, non è in grado di catturare la nostra empatia. A differenza delle bravissime Iyana Halley e Leah Jeffries, nei panni di Mare e Norah, ma soprattutto di Sharlto Copley che interpreta Martin, un personaggio apparentemente senza macchia che nasconde un lato che apre a una prospettiva di trama interessante.

Ma ciò che in Beast cattura veramente l’attenzione e colpisce per la fattura sono le scene action, girate in lunghi piani sequenza. La coincidenza intrinseca in questa tecnica cinematografica tra tempo della storia e tempo del racconto permette allo spettatore di immergersi totalmente in ciò che vede, e sentirsi quinto membro del gruppo: se la sensazione di trovarsi dentro un’attrazione da parco divertimenti è a volte molto accentuata, ciò non impedisce di godersi del puro intrattenimento visivo e di tensione. Che in fin dei conti risulta ciò che di più genuino e ben riuscito il film possa offrire, al di là di qualsiasi tentativo di innalzare la materia trattata tramite l’inserimento forzato di garbugli psicologici tutto sommato non necessari.

Un’ora e mezza di divertimento che sarebbe stato ancora più divertente se depurato di tutto ciò che di superfluo è stato inserito: il cinema di genere non ha bisogno di essere giustificato in alcun modo, l’action fatto bene può stare in piedi da solo.

Il trailer di Beast

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