Barry Jenkins a Roma per l'anteprima e l'incontro stampa di Mufasa - Il re leone. Courtesy of Disney Italia
Barry Jenkins a Roma per l'anteprima e l'incontro stampa di Mufasa - Il re leone. Courtesy of Disney Italia

Credo che Mufasa per troppo tempo sia stato un modello impossibile per bambini che non riuscivano a vedere loro stessi come dei re. Quello che mi piace del film è che abbiamo deprogrammato l’idea di ciò che ci vuole per diventare un leader

Barry Jenkins a Roma

Venerdì 15 novembre. Mentre il centro di Roma si prepara alle manifestazioni dello sciopero nazionale, in una delle sale cinematografiche più belle della città sembra tutto un altro mondo, un’utopia: il Milele. C’è infatti una sorpresa silenziosa, che non vuole attirare troppa attenzione ma a cui assistere è un vero privilegio.

Per qualche ora nella capitale arriva Barry Jenkins, straordinario regista (e sceneggiatore premio Oscar) di Moonlight. L’occasione è la presentazione del suo ultimo film, Mufasa – Il re leone, prequel live action del classico Disney che nel 2024 compie 30 anni.

Abbiamo visto in anteprima i primi quaranta minuti del film e abbiamo partecipato a un incontro stampa con Jenkins, trovando così la conferma a ciò che immaginavamo già quattro anni fa alla notizia di questa produzione: Mufasa – Il re leone non perde lo sguardo inimitabile del suo autore, nonostante il passaggio dal cinema indipendente al grande franchise Disney.

Perché Barry Jenkins (o perché no?)

I primi quaranta minuti di Mufasa – Il re leone corrispondono in modo netto al primo atto del film e appartengono all’universo del live action di Jon Favreau del 2019, cioè riprendono anche il Simba di Donald Glover (Marco Mengoni) e la Nala di Beyoncé (Elisa Toffoli). Si tratta però di una storia del tutto nuova, quella di un giovane Mufasa, adottato dalla famiglia di Taka, ovvero Scar. Mufasa e Taka, come fratelli, si avventurano alla ricerca di una terra sicura in cui vivere. Il Milele, il per sempre, sognato e immaginato.

Mufasa - Il re leone, live action diretto da Barry Jenkins. Courtesy of Disney. All Rights Reserved
Mufasa – Il re leone, live action diretto da Barry Jenkins. Courtesy of Disney. All Rights Reserved

«Quando la Disney mi ha contattato la prima volta ho detto no, senza nemmeno aver letto la sceneggiatura. Me lo ricordo ancora, ero in auto quando mi ha chiamato il mio agente e ho detto un secco no. Ma non possiamo dire no, mi è stato risposto, Non ancora. Così abbiamo aspettato. Gli ho chiesto di leggere la sceneggiatura, ma non poteva. Solo io avevo accesso al programma al computer. Dopo otto giorni la mia compagna, Lulu Wang, anche lei filmmaker (e qui si alza l’applauso in sala per la talentuosa regista di The Farewell, ndr) mi ha convinto a leggerla. Mi ha detto che sarebbe stato infantile da parte mia dire no senza permettere a me stesso di prendere almeno in considerazione l’idea. Così ho cominciato a leggere e il motivo per cui oggi voi avete visto i primi 39 minuti e 15 secondi è perché lì mi sono fermato la prima volta, mi sono voltato verso la mia compagna e ho detto: Wow. C’è qualcosa di speciale. È stata la sceneggiatura a conquistarmi».

Dal cinema indipendente al mainstream Disney

Barry Jenkins, come Greta Gerwig proviene dal mumblecore, movimento del cinema indipendente statunitense degli anni Duemila. Come Chloé Zhao ha una poetica e un’estetica dell’indie movie subito riconoscibile e, come Ryan Coogler, un’attenzione particolare all’unione fra arte e temi sociali. In comune con tutti ha il recente passaggio ai grandi Studios.

«Parlando di me, Greta Gerwig, Ryan Coogler, Chloé Zhao – tutti amici con cui ho parlato prima di accettare questo film – credo [che questa coincidenza, ndr] sia dovuta al fatto che noi siamo la prima generazione cresciuta con i franchise mainstream. Sono i film della nostra infanzia. Guardare qualcosa come Il re leone, Toy Story oppure Die Hard, Terminator, Indipendence Day, per noi è cinema. È il cinema con cui sono cresciuto».

Il modo in cui questi film arrivano a noi, perciò, ha sempre più di uno strato, più di un senso, intende dire Barry Jenkins, perché conservano anche il ricordo di ciò che sono già stati in passato.

Natura vs cultura: il tema di Mufasa secondo Barry Jenkins

«La mia vita è divisa in due fasi», prosegue il regista. «I film che ho guardato prima di andare alla scuola di cinema e i film che ho guardato dopo la scuola di cinema. La cosa fantastica di Il re leone, che adesso compie 30 anni, è che un simbolo culturale che condividiamo tutti, in tutto il mondo: quando vediamo Rafiki alzare in aria Simba sappiamo tutti che cos’è».

Nello specifico, da 30 anni sappiamo che «Mufasa è un grande personaggio. È re perché il padre era re e, come tutti coloro nati nello stesso percorso, era destinato a diventare re. E sappiamo che Scar è cattivo perché è nato cattivo. Io stesso ho sempre creduto a questa storia, nella natura in contrasto con la cultura (nature vs nurture, afferma nello specifico in inglese). Eppure adesso avete visto voi stessi che Mufasa perde tutta la sua famiglia e cresce nella famiglia di Taka/Scar. E viene allevato dalla madre di Scar che gli insegna cose stupende, soprattutto come restare connesso con le sue sensazioni, al contrario del padre di Scar, che è il vero genitore cattivo. Ecco, io volevo evidenziare proprio questo, come genitori diversi crescono figli diversi, persone completamente diverse».

Mufasa - Il re leone. Photo courtesy of Disney. © 2024 Disney Enterprises Inc. All Rights Reserved.
Mufasa – Il re leone. Photo courtesy of Disney. © 2024 Disney Enterprises Inc. All Rights Reserved.

«Ho scelto di fare questo film soprattutto per mostrare due personaggi complessi che sono frutto delle loro scelte e sono separati dalle stesse, dalle circostanze che hanno vissuto. E questo vale anche per ciò che accade adesso nel mio Paese, nel vostro Paese, in tutti Paesi in cui il film verrà tradotto. È molto importante avere questo tipo di storie che mostrano come siamo tutti esseri umani molto complessi e sono le scelte che facciamo che, in un certo senso, dettano ciò che accade».

«Mi piaceva inoltre l’idea di parlare di monarchia e di leadership: perché non è dove sei nato che determina chi sarai», come accade a Mufasa. «Io vengo dallo stesso mondo di Moonlight, luoghi duri, difficili. Chi viene da lì di solito non finisce a Roma a parlare a una sala piena di giornalisti per un film Disney. Oppure sì. Ecco, credo che Mufasa per troppo tempo sia stato un modello impossibile per bambini che non riuscivano a vedere loro stessi come dei re. Quello che mi piace del film è che abbiamo deprogrammato l’idea di ciò che ci vuole per diventare un leader».

«Per tutti questi motivi ho capito che dovevo farlo, questo film, non avevo altra scelta».

Come ha preso forma Mufasa – Il re leone

«Quando ho cominciato a fare Mufasa volevo portare un po’ della magia di Fantasia nel film: terre desolate che cambiano colore, farfalle che vengono fuori da nulla o Mufasa stesso che per un momento, da cucciolo dopo l’inondazione (che lo separa dalla famiglia, ndr) sembra fluttuare nello spazio, fuori dal tempo. Come Dante attraversa un’altra realtà, non sappiamo dove o perché, e quando raggiunge la superficie sente un suono che lo riporta indietro. Ho pensato, se nella Disney la scopa di Fantasia può iniziare a fluttuare, magari anche Mufasa può finire all’Inferno e uscire dall’altra parte».

Dal punto di vista tecnico, tuttavia, è stato tutto molto più complesso. Innanzitutto si tratta del primo musical di Barry Jenkins, ma come da lui stesso affermato, si è affidato molto all’esperienza di Lin-Manuel Miranda e al compositore con cui ha più volte lavorato, Nicholas Britell. La vera sfida è stata la tecnologia del live action stesso.

Barry Jenkins a Roma. Courtesy of Disney Italia
Barry Jenkins a Roma. Courtesy of Disney Italia

«Abbiamo trascorso circa un anno e mezzo a imparare a utilizzare la tecnologia in modo da padroneggiarla e non esserne padroneggiati. In modo da averla al nostro servizio e non il contrario. Nei restanti due anni e mezzo abbiamo fatto il film. Ci è voluta molta pazienza».

Jenkins ha lavorato inoltre con la stessa identica squadra di sempre, oltre al compositore Britell anche il direttore della fotografia, gli scenografi e la montatrice. «Mi servivano le persone che lavorano sempre con me. Volevo che fossero coinvolte in questo processo, tre in particolare: ho incaricato direttore della fotografia di catturare le immagini, la montatrice di organizzarle e gli scenografi di riempirle. Insieme abbiamo imparato gli strumenti che ci servivano per iniziare a piegare la tecnologia del film alla nostra volontà, con i consigli del reparto degli effetti visivi».

Come può, comunque, un regista così noto per i suoi intensi primi piani, per gli sguardi umani che rompono la quarta parete, rinunciare al legame con gli attori? Non l’ha fatto, in effetti.

«Prima di tutto abbiamo registrato le voci degli attori, come fosse un radiodramma: abbiamo fatto un “film per la radio“. Poi Joi (McMillon, la montatrice, ndr) ha messo tutto insieme basandosi sulle voci. Solo dopo sono arrivati gli storyboard e infine una versione in realtà virtuale in cui abbiamo girato. Lì per me si è trattato di riuscire a ottimizzare il movimento fisico. Con gli esseri umani a volte basta uno sguardo, una mascella serrata, per capire cosa si prova. Con i leoni è il movimento che trasmette tutto. Così anziché dirigere gli attori per il motion capture, sul set ho diretto gli animatori, in speciali tute in grado di disegnare con il corpo, unendo questa scrittura del corpo alle voci degli attori.

Mufasa e Moonlight, un’inaspettata connessione

«Molte cose legano Moonlight a Mufasa. In Moonlight, per esempio, una scena importante è quella in cui Juan (Mahershala Ali) insegna a Chiron a nuotare. Sono sotto la pioggia, ma restano in acqua. Lui gli dice: sei al centro del mondo, e lo lascia andare, solo. La stessa cosa, identica, succede anche in Mufasa. E non sono io che l’ho scritta, è successo. Penso anche che Chiron si senta orfano, come è Mufasa. Anche lui deve attraversare la vita cercando di costruirsi il mondo attorno e cercando di accettare l’idea di essere degno di amore. Potrei descrivere Chiron come Mufasa o Taka in questo momento, allo stesso modo. La quantità di similitudini tra loro mi ha sconvolto».

Ma la più grande coincidenza di Mufasa con la carriera e la vita di Barry Jenkins è a livello personale, afferma il regista.

Mufasa - Il re leone. Regia di Barry Jenkins. Photo courtesy of Disney. © 2024 Disney Enterprises Inc. All Rights Reserved.
Mufasa – Il re leone. Regia di Barry Jenkins. Photo courtesy of Disney. © 2024 Disney Enterprises Inc. All Rights Reserved.

«Nei 40 minuti che avete visto ancora non ci sono Rafiki, Sarabi o Zazu. Mufasa inizia a costruire una nuova vita, una nuova famiglia e una nuova comunità, proprio come ho fatto io quando sono andato a scuola di cinema e ho incontrato James Laxton (direttore della fotografia) o Joi McMillon. Persone che vengono da modi completamente diversi dal mio, ma con cui faccio film da 25 anni, come se fossimo una famiglia che è cresciuta insieme».

«Inoltre, mia madre è morta proprio mentre giravo Mufasa e forse non mi ero reso conto di quanto questo film mi stesse preparando al trauma di quell’esperienza. Come ha detto qualcuno riguardo al cinema, potrei prendere Mufasa scena per scena e capire dove mi trovo io, in ogni momento».

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