C’è vita oltre Ted Lasso nel mondo della serialità comica statunitense? Certamente. Basta grattare via la patina di ottimismo motivazionale per accedere ad un mondo sotterraneo dove crime e dark comedy forzano i confini angusti dello humor convenzionale: Barry ne è un ottimo esempio.
La trama
Barry Berkman (Bill Hader) è un veterano dei Marines che ha scoperto durante la guerra in Afghanistan di essere un killer nato: freddo, chirurgico, estremamente bisognoso del riconoscimento sociale che la sua inusuale abilità gli dà. Con l’aiuto organizzativo di Monroe Fuches (Stephen Root), un amico di famiglia dalle tendenze manipolatorie, Barry persegue la carriera di assassino a pagamento. Abituato ad eseguire gli ordini e aiutato dall’illusione di uccidere solo i cattivi, naviga a vista in un mare di insoddisfazione, cercando invano di sottrarsi all’attività che Fuches gli ha ritagliato addosso.
L’occasione per il riscatto arriva con un omicidio a Los Angeles, dove la vittima designata segue un corso di recitazione tenuto da Gene Cousineau (Henry Wrinkler), attore stagionato che si è fatto una pessima reputazione in decenni di intemperanze sui set. Il suo metodo fa subito presa su Barry, sul suo stress post-traumatico e sulla sua disperata necessità di dedicarsi ad un’attività costruttiva. Aiuta anche il fatto che tra gli studenti di Cousineau ci sia Sally Reed (Sarah Goldberg), attrice promettente che lo accoglie subito, attirata dalla sconfinata – quanto ingenua – ammirazione che Barry prova per lei.
Sfortunatamente però il lavoro di Barry non è del tipo che si chiude con una lettera di dimissioni e una stretta di mano. Cosa ne pensa Fuches della sua smania di emancipazione? Come farà Barry a gestire la rabbia se l’omicidio non è più una strada praticabile? Ci sarebbe poi la faccenda dell’uccisione dell’aspirante attore, che non è andata come doveva e lascia il protagonista in balìa di due forze opposte: da un lato gli investigatori della polizia, dall’altro i mandanti dell’omicidio che fanno capo alla mafia cecena – guidati da NoHo Hank (Anthony Carrigan).
Barry e i generi
Considerata dalla critica una delle serie più innovative degli ultimi anni, Barry deve molto alla visione creativa dell’autore/attore Bill Hader. La sua lunga permanenza come attore comico al Saturday Night Live (2005-2013) e la sua passione per il cinema classico hollywoodiano si fondono in un amalgama estremamente originale.
Visivamente, lo spazio viene esplorato in modo lento ma con intento, con una costruzione della suspense di perizia hitchcockiana che suggerisce un senso di straniamento persistente. Dal punto di vista narrativo, l’assurdità dello spunto iniziale (nato da uno sketch rifiutato su SNL) è continuamente rilanciata e superata dall’assurdità delle situazioni in cui si ritrova il protagonista nello sforzo (delirante) di conciliare due vite antitetiche.
Per questi motivi è difficile assegnare un genere a Barry, anche se le nomination per Emmy e Golden Globe sono sotto la categoria comedy series. Nella stessa puntata si passa dalla comicità fisica al terrore esistenziale, dalla tensione emotiva alle uccisioni coeniane, dalla satira sul mondo dello spettacolo a celebrazioni sentite del mestiere d’attore – tutto nel giro di mezz’ora. Se ne esce pesti ma entusiasti, senza mai la sensazione di aver visto qualcosa di superfluo o gratuito. Il che, considerando l’eterogeneità del materiale, depone a favore della solidità della scrittura.
Tutto quello che può andar male
Se l’epoca d’oro di Hollywood è un riferimento a livello visivo, non potrebbe essere più lontana a livello narrativo. Non ci sono morti chirurgiche e composte, non ci sono cattivi perfidi e intelligentissimi, non ci sono buoni che vincono nonostante tutto. Ci sono invece: bersagli che si rifiutano di morire, imboscate finite male, cattivi attori, malavitosi infantili. L’idea è quella di rovesciare i rapporti di forza per far emergere sviluppi imprevisti; non per amore di plot twist, ma per stringere attorno ai personaggi una trappola di precisione che lascia loro sempre meno spazio di manovra. E sottoporli poi all’incursione caotica di forze imponderabili, che potrebbero salvarli o accelerarne l’uscita di scena.
I personaggi
In una serie che caratterizza i personaggi con un approccio deliberatamente straniante, tenerli a distanza è l’unico modo per poterne ridere senza tifare per loro. Barry è un assassino, non particolarmente affascinante né pronto di riflessi. Sally è un’attrice talentuosa ma piena di sé, e meno coraggiosa di quanto ami apparire. Gene esorta i suoi studenti a sondare delle profondità emotive che lui non ha coltivato neanche nella vita reale. Noho Hank ha difficoltà a capire che non può gestire un’impresa criminale come fosse un BnB.
Eppure: la brutalità che dilaga per contagio intorno a Barry ci permette di accedere all’umanità dei personaggi attraverso il linguaggio universale del trauma. Nessuno di loro, preso singolarmente, è accattivante abbastanza da farci affezionare (a parte forse Noho Hank); allo stesso modo, però, non possiamo che riconoscere come nostro il dolore della perdita e la smania di rivalsa di chi si ritrova vittima di violenza.
In questo senso le sequenze dedicate al laboratorio attoriale di Gene sono tra le più rincuoranti: perché mostrano la possibilità concreta di sublimare le esperienze dolorose in maniera creativa. Non abbastanza da restituirci fiducia in un universo gelido e inospitale, ma a sufficienza per tirare il fiato tra un assassinio e l’altro.
In breve
Barry è una serie esigente, che ti inchioda alla sedia e ti costringe a reazioni forti. È anche una serie generosa, che dopo averti preso a ceffoni ti regala dei momenti comici memorabili. A condizione, certo, di invitare alla visione anche la propria parte disturbata.
Le prime due stagioni di Barry sono disponibili su Sky e Now TV.
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