Poster di A24 The Party a cura di Lorenzo Mò, con font del titolo di Julia Zorzi e Alessandro Fiori
Poster di A24 The Party a cura di Lorenzo Mò, con font del titolo di Julia Zorzi e Alessandro Fiori

La casa di produzione e distribuzione cinematografica e televisiva indipendente statunitense A24 compie oggi 12 anni: era proprio il 20 agosto 2012 il giorno in cui l’azienda veniva fondata da Daniel Katz, David Fenkel e John Hodges (quest’ultimo nel 2018 ha abbandonato la compagnia).

In questi 12 anni A24 ha prodotto e distribuito moltissimi film e serie televisive, ha scelto progetti fuori dal comune, ha puntato su narrative diverse, proprie di poetiche nuove. A24 ha creato una visione vera e propria, grazie alla quale capiamo istantaneamente quando stiamo guardando un loro prodotto: le storie scelte da A24 sono inconfondibili.

Il Party

Dopo #Kirby4thWorldParty20 (Agosto 2020), omaggio all’immaginazione di Jack Kirby, #SatoshiKonParty21 (Ottobre 2021), una rivisitazione dei personaggi folli di Satoshi Kon e #starwarstheparty22, dedicato alla Galassia Lontana Lontana, arriva un nuovo “Party”.

A24 The Party 24, nato da un’idea di Leonardo D’Angeli, non è solo un omaggio alla casa di produzione e distribuzione cinematografica che prende il nome dall’autostrada A24 Roma-Teramo (l’idea è nata proprio mentre i creatori stavano percorrendo quella strada) ma vuole essere anche un ponte tra cinema e illustrazione presentando artisti unici e diversi tra loro.

Seguendo l’hashtag #A24TheParty24 su Instagram, scoprirete 190 illustrazioni dedicate ai film, corti, documentari e alle serie tv prodotti e distribuiti da A24. Noi di FRAMED Magazine abbiamo scelto 10 film, da Spring Breakers ad Everything Everywhere all At Once, per festeggiare il party. Scopriteli qui sotto.

Spring Breakers di Harmony Korine (2013)

Immerso nella luce arancio e rosa del tramonto su una Florida calda e ovattata, un James Franco con treccine si mette al pianoforte per suonare Everytime di Britney Spears, circondato da tre ragazze con passamontagna ricamati e pericolose armi da fuoco tenute come bambole strette al petto. Questo è Spring Breakers, acido racconto al neon di una vacanza di primavera senza regole o freni, in cui Brit, Candy, Cotty e Faith lasciano la monotonia di un’asettica aula del college per vivere sfrenatamente un’esperienza di violenza forsennata, libertà senza condizioni, grottesca umanità. Solo una di loro verrà assalita dal disgusto e dalla paura, e tornerà a casa prima del gran finale.

Le altre indosseranno i loro costumi da bagno, il passamontagna con l’unicorno sopra, per raccontarci di una generazione ferma e incatenata in un tempo senza prospettive o desideri, in balia di emozioni forti, purché siano emozioni, necessarie per svegliarle dal torpore dell’immobilità. Spring break forever!

Spring Breakers di Nova

The End of the Tour di James Ponsoldt (2015)

Chi avrebbe mai pensato che Jason Segel (il Marshall di How I Met Your Mother) sarebbe stato un interprete ideale per incarnare l’essenza dello scrittore David Foster Wallace? Il film di James Ponsoldt si basa sul libro del giornalista David Lipsky (che firma anche il soggetto del film), Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta (Although of Course You End Up Becoming Yourself: A Road Trip With David Foster Wallace).

Il libro è la trascrizione di una lunga intervista che Lipsky registrò tra il 5 marzo 1996 e il 10 marzo 1996 durante la fase conclusiva del tour promozionale di Infinite Jest; l’intervista era per Rolling Stone e racconta dettagliatamente tutti i momenti che i due hanno condiviso, rivelandosi anche se sconosciuti, parlando di libri, di musica, ma anche di ombre insormontabili dell’animo umano, e desideri, rimpianti. The End of the Tour, che vede nel ruolo di Lipsky Jesse Eisenberg, racconta con amabile semplicità un tassello temporale nella vita di uno degli scrittori più importanti della letteratura moderna mondiale: il risultato è il ritratto di un uomo con la paura di non farcela e foto appese in bagno (tra cui quella di Alanis Morissette), una vita solitaria e la voglia di muoversi, ballare, aderire al reale oltre la pagina. Sul finale preparate i fazzoletti.

The End of the Tour di Emanuele Rosso

The Farewell di Lulu Wang (2019)

The Farewell arriva come consacrazione di Awkwafina, l’attrice e comica statunitense di origini cinesi (da parte di suo padre) e coreane (da parte di sua madre). Il film di Lulu Wang è in parte biografico, e si snoda nel racconto nostalgico e colmo d’amore in cui la protagonista, l’artista Billi, torna alle sue radici, ai luoghi che le provocano dei flash di quando era bambina, alla casa di sua nonna, Nai Nai, a cui è stato diagnosticato un tumore in fase ormai avanzata.

Così la parte della famiglia che vive ormai a New York torna in Cina per far visita alla donna e al resto della famiglia; di comune accordo decidono di non rivelare la malattia a Nai Nai, inizialmente anche Billi è favorevole, ma con il passare dei giorni cambierà idea. La dolcezza di The Farewell si comunica attraverso la rappresentazione di una bugia buona, e della variopinta diversità all’interno di un nucleo familiare diviso tra due paesi distanti.

Everything Everywhere all At Once di di Daniel Kwan e Daniel Scheinert (2022)

Una commedia fantascientifica, una narrazione multidimensionale sbeffeggiante e autoironica, un film action che nasconde una profonda morale legata al concetto di famiglia, un film tecnicamente sbalorditivo: questo è Everything Everywhere all At Once. Dà l’idea di essere qualcosa di molto complicato da riassumere, in realtà il cuore del film è un punto di partenza semplice: Evelyn Wang è una donna profondamente insoddisfatta

Il film raccoglie una moltitudine di universi significa per una moltitudine di generi cinematografici e di tecniche, e vibra di influenze, omaggi e citazioni esilaranti. Ogni realtà ha la sua forma e le sue regole (anche visive e cinetiche), e tutto si fonde in un magma travolgente: dall’animazione al simil stop motion. Potrete trovare la violenza pulp di Quentin Tarantino, il montaggio elegante di Wong Kar-wai e l’esplosione sensoriale di Sion Sono. Si aggiudica sette premi Oscar su undici candidature, e Michelle Yeoh diventa la prima attrice asiatica a vincere l’Oscar come Miglior Attrice.

Silvia Pezzopane

Everything Everywhere all At Once di Fracesco Di Pietro

Moonlight di Barry Jenkins (2016)

Se avesse senso studiare il cinema come si fa con la letteratura, Moonlight di Barry Jenkins sarebbe quanto di più possibile vicino a una poesia. Da conservare sempre vicina, da rileggere e imparare a memoria, per ritornarvi ogni volta che il cuore lo richiede. I tre atti della storia di Chiron – bambino, adolescente e adulto – sono al tempo stesso la fotografia di una società (la crack epidemic della Miami degli anni Ottanta) e il racconto estremamente personale di un uomo, nero e gay, che dopo aver a lungo rinnegato se stesso inizia piano piano a capire di doversi amare, per sopravvivere.

Moonlight è un racconto di bellezza, di estetica che diventa politica: bellezza maschile, bellezza nera, bellezza negata dallo sguardo della società, nascosta nelle case popolari e nelle spiagge abbandonate, nelle famiglie smembrate o disperate. Bellezza che Barry Jenkins riscopre con cura, un primo piano dopo l’altro, senza fretta lasciando che ogni tappa della vita di Chiron si racconti quasi da sé, senza troppe parole, fermandosi soprattutto sugli sguardi. Perché è negli occhi Chiron – anche in tre corpi diversi, quelli di Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes – che si si aggrappa il senso di una storia piccolissima, che sa diventare universale.

Moonlight di Veronica Ruffato

Waves di Trey Edward Shults (2019)

Un colpo secco, forte e improvviso. Una vita che si interrompe e una che cambia per sempre, facendo di Tyler (Kelvin Harrison Jr) un assassino. È il momento in cui Waves di Trey Edward Shults si spacca a metà, creando due film diversi e due mondi diversi, quello di Tyler stesso e quello di Emily (Taylor Russell). Come le onde che possono trascinare giù nell’abisso o cullare a galla, le due parti di Waves sono opposte una all’altra, ma della stessa natura.

Dolorosa, opprimente (anche nei colori e nella luce), la storia di Tyler è quella di un ragazzo in trappola che non conosce altra via d’uscita se non la propria violenza, incontrollata e incontrollabile. Serena, gioiosa e alla ricerca del bello in ogni dettaglio è invece la storia di Emily, cresciuta nella stessa asfissiante famiglia di Tyler, ma capace al contrario di salvarsi dall’ossessione turbolenta che affligge il padre (Sterling K. Brown) e il fratello. Waves è il racconto di relazioni sbagliate, che cercano di raddrizzarsi. E di un perdono difficile, che trova il modo di farsi spazio, soprattutto attraverso l’immagine cinematografica, che con cinque diverse aspect ratio si allarga e si stringe, togliendo e restituendo il respiro al pubblico e ai suoi stessi protagonisti. Un esperimento, di forma soprattutto, difficile da dimenticare.

Valeria Verbaro

Bling Ring di Sofia Coppola (2013)

Scritto e diretto da Sofia Coppola, The Bling Ring è il quinto lungometraggio della regista arrivato nei cinema nel 2013, dopo aver inaugurato la sezione Un certain regard al Festival di Cannes dello stesso anno. Il film, basato su una storia realmente accaduta, racconta di un gruppo di ragazzi di Los Angeles che, tra il 2008 e il 2009, hanno compiuto una serie di furti ai danni di numerose celebrità di Hollywood.

Da molti criticato e recepito tiepidamente da pubblico e critica, The Bling Ring è forse uno dei film più ambiziosi degli ultimi anni, perché non solo è un racconto di una vicenda che sembra quasi surreale, ma è un ritratto della realtà. Lusso e apparenza si fondono per rappresentare al meglio un’idea di realtà comandata dal consumismo e dalla necessità di visibilità, sempre più ricercata e quasi osannata. Il tutto incorniciato dallo stile registico tipico di Sofia Coppola, adattato ad una storia inusuale, dove dominano ritmo ed eccesso.

Rebecca Fulgosi

Bling Ring di Francesca Gulino

Ex Machina di Alex Garland (2014)

Una temporanea interruzione di energia, un blackout di libertà dallo sguardo del padrone che ti sorveglia. È quello provocato dall’androide Ava (Alicia Vikander) nella reggia-laboratorio del decadente, autoritario scienziato-manager (e suo creatore) Nathan (Oscar Isaac) per conversare col programmatore Caleb (Domhnall Gleeson) come una persona, e non come un esperimento senz’anima. Un po’ come il Winston di 1984 si rintanava nell’unico angolo della stanza dove l’occhio del Grande Fratello non potesse vederlo.

Ed è, soprattutto, un’allegoria politica (mascherata da thriller e anomala love story post-intelligenza artificiale) Ex Machina (2014, Oscar agli effetti speciali), primo lungometraggio del futuro regista di Annientamento, Men, Civil War. Aggiornando Orwell (ma anche la paranoia del Philip K. Dick di Blade Runner) al capitalismo 2.0, e alle istanze cyber-femministe e post-coloniali del XXI secolo (e oltre). Che non pagano più alcun pegno al maschio bianco occidentale, oppressore o (presunto) liberatore.

Emanuele Bucci

Ex Machina di Sofia Scogli

Swiss Army Man di Daniel Kwan e Daniel Scheinert (2016)

Hank ha avuto un’adolescenza difficile, e l’ingresso nell’età adulta non sembra andare molto meglio. In riva a un mare sconosciuto, perso e isolato, sta per compiere un gesto definitivo: ancora non sa che la sua vita cambierà grazie a un cadavere multiuso e alla sua prodigiosa flatulenza. 

Swiss Army Man è il primo lungometraggio dei Daniels, fino a quel momento registi di videoclip dall’inconfondibile impronta visiva (Houdini – Foster The PeopleTurn Down for What – DJ Snake/Lil JonMy Machines – Battles). Lirismo monnezzoide, lotta allo stigma sul disagio psichico e un certo orgoglio queer rendono la visione del film un’esperienza peculiarissima e fortemente sconsigliata a chi non apprezza un rimpallo costante tra particolare e universale, ironia e introspezione, teorie (para)scientifiche e detriti di cultura pop. Come Everything Everywhere All At Once, ma senza il bacino sulla fronte del mainstream accademico.

Michela Zedda

A Ghost Story di David Lowery (2017)

A un primo sguardo, A Ghost Story potrebbe essere la classica storia di fantasmi: un uomo muore in un incidente d’auto e ritorna dalla morte come spirito.

Una storia classica, quasi banale. Ma non è così. A Ghost Story è una profonda riflessione sulla vita, la morte e la solitudine umana. Dal punto di vista della simbologia, il film di Lowery risulta brillante e originale nella ricerca della tradizione e dell’iconografia classica (paradossalmente). Quando eravamo bambini, come disegnavamo i fantasmi? Come delle figure coperte da un lenzuolo con due buchi per gli occhi. Ed è esattamente così che il fantasma, impersonato da un eccezionale Casey Affleck, si presenta.

Potrebbe sembrare grottesco, forse comico. Invece no. È solo triste e incredibilmente poetico. Questa figura biancovestita, che gira per la casa che un tempo era stata sua e di sua moglie, suscita empatia anche se non ha più nulla di umano nelle fattezze. Ma c’è una grande umanità nel suo vagare silenzioso, nella delicatezza con cui il capo si gira a guardare la quotidianità  della moglie, nel suo tentativo di andare avanti.

Chi non riesce ad andare avanti è proprio lui, che rimane in quella casa e osserva. Osserva l’amata, la osserva andare via e lasciare quello che era il loro nido a nuovi inquilini. Osserva la casa invecchiare e infine cadere a pezzi. Ma lui rimane lì, incrollabile. Legato al ricordo della vita che fu.

Giulia Losi

A Ghost Story di Camilla Cipriani

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