Con l’obiettivo di far luce su un tempo storico preciso, Andrea Segre sceglie di far parlare l’uomo, Enrico Berlinguer, prima del leader, ponendolo in un momento di divisione e difficoltà, evitando di mitizzarlo, ma delineando involontariamente quella che si può chiamare unicamente mitologia, dell’impegno politico e civile.
L’interpretazione di Elio Germano – che si aggiudica il Premio “Vittorio Gassman” al miglior attore alla Festa del cinema di Roma 2024 – e la cura del regista e dello sceneggiatore Marco Pettenello, contribuiscono a rendere il film una lezione di storia per ricordare o magari per mostrare, alle generazioni che Berlinguer proprio non lo conoscono, come era possibile parlare alle persone in una realtà passata (che si percepisce più che mai distante) in cui la politica costituiva prima di tutto una collaborazione, e non una chiusura individualistica concentrata sul potere. Gli anni raccontati partono dal viaggio a Sofia del 1973, quando Berlinguer sfuggì a un attentato dei servizi segreti bulgari, fino all’assassinio nel 1978 di Aldo Moro, e la conseguente drammatica fine della strategia del “compromesso storico”.
Berlinguer. La grande ambizione di Andrea Segre ha aperto (in concorso) la diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma ed è in sala dal 31 ottobre scorso.
Il personaggio: Enrico Berliguer
Il Berlinguer di Elio Germano è il risultato di un’aderenza al corpo e al sentire dell’uomo, nonché alla fedele rappresentazione di una serie di atteggiamenti e pensieri condensati in un personaggio che mai prima d’ora è stato rappresentato con tale cura. A emergere sono proprio i dettagli, che riescono a distoglierci dalla finzione e dal trucco prostetico rendendo credibile la voce, la figura, l’essenza.
Il corpo di Berlinguer raccontava un senso di inadeguatezza, di peso, di fatica – dice l’attore, ed è stato questo ad ispirarlo. La grande ambizione del titolo richiama le parole di Antonio Gramsci, fondatore del Partito comunista italiano, che affermava come fosse indissolubile dal bene collettivo, e in lotta contro le piccole ambizioni, legate a singoli fini privati. Con tale spirito Germano assorbe la vita di Berlinguer vivendola nella sua pelle, vestendosi di insicurezze e vittorie, ideali e sogni.
E proprio nella rappresentazione dei valori sensibili dell’uomo, passa in secondo piano l’eventualità di produrre un biopic sull’eroe, fortemente non voluto come effetto finale, lasciando spazio a un film filologicamente preciso, soprattutto nei sentimenti raccontati.
Concorrono al successo di fedeltà interpretativa anche gli altri componenti del cast, tra cui Elena Radonicich, Paolo Pierobon, Roberto Citran, Andrea Pennacchi, Giorgio Tirabassi, Paolo Calabresi, Francesco Acquaroli, Fabrizia Sacchi.
Lo spaccato storico narrato è credibile, a tratti nostalgico, eppure mai contaminato da elogi o esaltazioni, ed e questo aspetto a conferire grande equilibrio al lavoro di Segre.
I materiali d’epoca e la ricerca del vero
Sebbene in alcuni passaggi Berlinguer. La grande ambizione possa apparire eccessivamente documentaristico, è proprio nella commistione con i materiali d’epoca che trova la sua personale cifra stilistica. Se dopo Esterno Notte di Marco Bellocchio i confini del film politico si sono ridefiniti, Segre sceglie di tornare a una formula in cui il repertorio riesca ad assumere tratti sia poetici che didascalici.
Anche qui la lezione di storia prevale sul cinema in sé, ma non necessariamente in senso negativo. Il fatto che diventi didattico e non solo politico lo rende un messaggio prima di un’opera artistica, significativo in un momento in cui difficilmente il cinema ha il coraggio (o la forza) di riportare al centro il valore di un messaggio.
Così all’interno di un quadro di cinema politico classico, la vita di un individuo che si mette al servizio della comunità si traduce non solo nella ricerca ma anche nella memoria visiva: sono senza dubbio le immagini dei funerali di Berliguer, a cui partecipano circa un milione e mezzo di persone, segnando con lacrime e desideri infranti la fine di un’epoca, le più commoventi ed evocative, quelle che spezzano una lezione di storia lasciando che l’emotività del ricordo irrompa nella narrazione.
In breve
Berlinguer. La grande ambizione è un film prezioso, e dolorosamente mitologico. Mai come in questi anni la rappresentazione del segretario del partito comunista italiano risulta distante, inimmaginabile. Non è un caso che la vicenda successa a Roma, dove dei ragazzi incappucciati hanno fatto irruzione durante una proiezione per insultare gli spettatori che guardavano il film di Segre, diventi così indicativa di una crisi esistente, che poggia su una mancanza di grandi ambizioni che contrasta visceralmente con il lavoro portato in sala da Germano e gli altri.
Dove le battute sul compromesso storico e sui comunisti perdono smalto, quel mondo diviso continua a raccontarci di noi, dell’incapacità di ambire a qualcosa che ci veda partecipi. Per questo chiunque dovrebbe guardare Berlinguer. La grande ambizione, da chi ha pianto al funerale del 1984, a chi ha letto quel nome su un libro di scuola quasi per caso. Conoscere diventa così il primo passo per avere (e mantenere) la propria grande ambizione.