I miei vicini Yamada (1999), Studio Ghibli
I miei vicini Yamada (1999), Studio Ghibli

I miei vicini Yamada di Isao Takahata arriva nelle sale italiane a 25 anni dalla sua uscita.

Nei 111 anni dell’animazione giapponese la famiglia è stata protagonista di innumerevoli storie: da rappresentazioni tradizionali ed iconiche come quella di Sazae-san alla modernità di Summer Wars o alla bizzarria di Uchoten Kazoku, l’importanza del focolare ha fatto da filo conduttore anche in questo campo in accordo ai valori comunitari giapponesi.

E Isao Takahata, amante della tradizione curioso e appassionato, ha indubbiamente contribuito a più riprese nel definire un ritratto sincero dei nuclei familiari: in Omohide Poro Poro (Pioggia di ricordi) descrive con vari episodi i mutamenti sociali, in Pom Poko usa una famiglia animale per esortare al rispetto della tradizione e della natura, con La Tomba delle Lucciole racconta la disintegrazione dei valori nel post-guerra. E poi ancora ne ha parlato nelle sue serie televisive, in Jarinko Chie, addirittura in modo diverso anche nel suo primo storico lungometraggio Taiyo no Oji – Hols no Daiboken.

Nessuno di questi ritratti, tutti di grande incisività, può però condividere l’unicità de I miei vicini Yamada, tra i film più singolari di un regista eclettico e contemporaneamente flop di proporzioni gargantuesche a discapito della cura sopraffina con cui è stato confezionato. Per celebrare il suo arrivo nei cinema italiani a 25 anni dall’uscita, oggi ripercorriamo brevemente le tappe che hanno spinto alla produzione e all’inevitabile fallimento economico (ma non creativo) di un’opera deliziosamente scettica nei confronti del sistema sociale nipponico.

L’estetica unica de I miei vicini Yamada

Siamo negli ultimi anni del ventesimo secolo e Isao Takahata è reduce dal suo più grande successo commerciale. Pom Poko registra infatti un incasso di quattro miliardi e mezzo di yen, cifra notevole che conferma la validità del regista al botteghino. Contrariamente a quanto creduto dal pubblico occidentale, in Giappone il nome di Takahata è associato mediamente a buoni risultati; la nomea (comunque non meritata) di artista ritardatario che causa grosse perdite, se vogliamo, ha iniziato a crearla con gli ultimi, bellissimi sussulti.

“Gli Yamada”, distribuito da Shochiku per via di un litigio con la Toho avuto dal presidente di Tokuma Shoten, è tratto dall’omonimo yonkoma (strisce verticali di quattro panelli) di Hisaichi Ishii, un ritratto umoristico e popolare della vita in famiglia filtrato principalmente dagli occhi della piccola Nonoko, poi diventata effettiva protagonista con tanto di cambio del titolo in Nono-chan. Takahata dal canto suo ha per il soggetto una visione ben precisa, che verrà a costare poi molto caro al Ghibli: colori applicati a mo’ di acquerello, per definire un’immagine che ricorda tantissimo l’estetica delle strisce quotidiane. Vengono subito in mente le grandi firme del New Yorker e quel tratto sottile, quasi abbozzato, così come anche Frederic Back con il suo Crac!.

È un’idea di design e d’animazione aliena all’industria dell’animazione giapponese, che alla fine degli anni ‘90 deve essere affrontata quasi obbligatoriamente con i nuovi mezzi a disposizione: per la prima volta nella storia dello studio, Yamada verrà colorato interamente in digitale per replicare l’effetto desiderato. È una novità assoluta che naturalmente comporta determinati prezzi, sia dal punto di vista economico che temporale. Non siamo ancora dalle parti di Kaguya-hime (La storia della Principessa Splendente), ma la mole di lavoro conterà 170 mila disegni e un budget dichiarato di due miliardi di yen. Risorse insolite ancora oggi, che essendo nelle mani giuste hanno garantito al film un’estetica unica; d’altro canto, l’ingente somma stabilita per la produzione è anche il motivo per cui l’incasso, un dignitoso miliardo e mezzo di yen, ne ha decretato il flop.

Per il pubblico giapponese è d’altronde un film che parla di un contesto piuttosto familiare: per quanto bizzarra, la famiglia Yamada incarna infatti alcuni classici stereotipi alle prese con situazioni altrettanto classiche. Abbiamo la madre che manda avanti la casa e rimprovera il marito, il padre impiegato carico di stress che si barcamena tra lavoro e famiglia, il figlio maggiore in cerca di una sua libertà e la sorellina dal comportamento spensierato, figlia di una prosperità (quella della bolla) che sfuma all’orizzonte. Le dinamiche relazionali sono però scomposte, in aperto contrasto con l’ordine predicato dalla ricostruzione nipponica: casa Yamada è il palcoscenico di un caos esplosivo in grado di divorare tutto ciò che incontra, spettatori o convenzioni che siano.

Mantenendo una salda immagine della famiglia tradizionale, i personaggi si muovono animati da una forza più intensa e urgente rispetto al senso di dovere, per rispecchiare la necessità di affrontare il vento del cambiamento con l’amore. Un amore che la piccola Nonoko rivede negli sforzi del padre, nel fratello, persino nella monotonia culinaria della madre. I piccoli gesti conducono a un grande risultato, ad abbracciare traguardi ben più alti di una promozione o di un acquisto folle; in ogni caso, è una semplice questione di priorità.

Valorizzare la quotidianità della vita

Takahata, con l miei Vicini Yamada, ha ribadito che la sua priorità è quella di raccontare un mondo in cui le uniche cose che contano sono l’apprezzamento per la vita e la sua valorizzazione. Lo si percepisce quando il pater familias Noboru subisce un cambio di connotati vero e proprio nel confronto con un gruppo di teppisti per poi tornare nella sua graziosa forma iniziale alla comparsa di moglie e cognata. Lo si apprezza, invece, quando le note di una versione ritradotta di Que sera, sera ci accompagnano verso un finale dolcissimo e pieno di speranza.

La caratteristica più evidente di tutta la storia, raccontata senza bisogno di un vero filo conduttore, è infatti la malinconica allegria che descrive il quotidiano degli Yamada in modo tanto “fumettistico” quanto realista: il faceto delle vicende, asservite più che altro alla commedia, avvia con intelligenza una conversazione con il serio delle emozioni, rispettate nella loro interezza e per questo mai banalizzate. È un ritratto in cui si avverte che la leggerezza è metodo di racconto e non certo ragion d’essere, poiché nell’economia della realtà anche la felicità più spensierata gioca il suo ruolo.

E dunque con i problemi della società giapponese, comunque degni di nota, si può anche provare a costruire un’ilarità che esorcizzi la paura di agire, l’ipocrisia di pensare che sia tutto ok, il senso di solitudine causato dall’affrontare tutto in solitaria. Non c’è serietà senza superficialità, e viceversa. Per questo, lo sguardo di Takahata e la voce degli animatori che gli hanno prestato il talento preme molto sull’utilizzo di immagini confortanti, calorose, in grado di abbattere la percezione del “serio” come “noioso”.

Volti e corpi lievemente contornati, in movimento su sfondi quasi eterei, che tuttavia esprimono una vitalità estremamente convincente. L’animazione permette allo sguardo di soffermarsi su aspetti della realtà che spesso non percepisce, glieli presenta sotto una luce radiosa e gliene comunica la grandezza. Isao Takahata credeva molto in questo concetto, ed ancora una volta ha creato un lungometraggio che desse allo spettatore un modo per rendersi conto davvero di ciò che vive (o viveva) ogni giorno.

In breve

I miei vicini Yamada, nelle sale dal 18 al 24 luglio, è un film che gli appassionati di animazione (per il mostruoso livello tecnico) e di commedie familiari (per la bellissima interpretazione del genere) non possono assolutamente lasciarsi scappare. Non dev’essere tutto un capolavoro o una rivoluzione, d’altronde. A volte basta un gesto piccolo, ma significativo.

Illustrazione di Raffaele Sorrentino

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