Quando Kevin Costner ha annunciato il suo progetto epico western in quattro capitoli, il mondo del cinema è rimasto in attesa con entusiasmo. Dopo quei nove minuti di standing ovation al festival di Cannes per le tre ore di Horizon: An American Saga – Capitolo 1, il film sembrava destinato alla gloria. Poi a fine giugno finalmente è arrivata la distribuzione internazionale, e purtroppo ci siamo dovuti ricredere molto.
Visivamente Horizon è ineccepibile, capace di riempire lo schermo con i paesaggi e gli scontri tipici che hanno reso il genere western memorabile, ma si perde nei personaggi, nei dettagli estetici e in una diffusa ingenuità stilistica che traspare da tutta l’opera.
Cielo di Piombo a Horizon
Tre storie si aprono davanti a noi in questo primo capitolo di quella che già dal titolo sembra essere una grande saga del genere western.
La cittadina di Horizon viene rasa al suolo da un gruppo di Apache, che rivendicano il loro territorio, e i superstiti vengono trasferiti nel vicino accampamento della cavalleria dell’Unione, Camp Gallant. Nel frattempo gli Apache si dividono in due fazioni, una che vuole difendere la terra dai bianchi con la violenza e una che cerca una via più moderata. Sui soldati della cavalleria invece incombe lo spettro della guerra di secessione.
Nel Montana intanto, Lucy (Jena Malone) spara a James Sykes (Charles Halford) e scappa portandosi dietro suo figlio. Si stabilisce nel Wyoming insieme a una prostituta solitaria, Marigold (Abbey Lee), ma dovrà fare i conti con la implacabile vendetta della famiglia Sykes.
L’ultima storia, molto più breve delle altre, riguarda una carovana diretta a Horizon e i problemi che le persone che la compongono trovano nel rimanere affiatati a fronte dei molti problemi che incontrano durante il viaggio.
La strada che porta a Ovest
Il comparto visivo del film è maestoso. La fotografia riesce a orchestrare gli scontri notturni e i grandi paesaggi assolati, dal brullo Nuovo Messico al boschivo Wyoming, con una grazia sublime, coadiuvata da una regia che riesce a dare estrema dignità e potenza alle scene. Ma l’epica non vive di sole sequenze o immagini. A mancare è il respiro lento e cadenzato della sceneggiatura, capace di trasformare una storia minuscola in mito e una grande produzione in un film epico. Horizon è troppo ingenuo.
Le tre storie sono diseguali, con la seconda riguardante la ricerca dei Sykes anche abbastanza ostica da comprendere, ma questo non significa che nel secondo capitolo esse non possano riallacciarsi tra loro in maniera più omogenea.
Troppi dialoghi sono iniezioni di discorsi e temi contemporanei dentro una storia polverosa e sanguinaria, eccessivamente retorici e spesso anacronistici, troppo insensati per quei tempi.
La verbosità molto spesso depotenzia l’epica, in cui le parole vanno pesate come fossero incantesimi, per marcare le scene e risultare potenti quanto le immagini. È difficile ma realizzare l’epica al cinema non è mai stato facile.
Troppi dettagli estetici, soprattutto nelle acconciature di capelli e barbe, sono iper-mordenizzati: non si dovrebbero mai cercare delle minuzie saggistiche in un film ma purtroppo quando certi dettagli, che puntano più sul visivamente piacevole che sullo storico credibile, saltano all’occhio, si ottiene uno spiacevole effetto patetico-pubblicitario. Lo stile del film trascende, senza volerlo, il cinematografico, e fa sembrare il film una pubblicità lunga tre ore.
Stereotipi e come combatterli
Un genere codificato come il western ha sempre un elenco di personaggi stereotipati: la sanguinaria banda di fuorilegge organizzata a livello familiare, la prostituta dal cuore d’oro, il pistolero solitario che incappa nei guai nella città in cui è appena arrivato, il gentile ufficiale di cavalleria dal pensiero moderno, la donna scampata agli attacchi dei nativi americani e persino il sergente saggio e attempato; quest’ultimo ripreso direttamente dalla grande trilogia che John Ford dedicò alla cavalleria alla fine degli anni ‘40, il mitico sergente Quincannon interpretato da Victor McLaglen.
Solo questo ultimo personaggio, che in Horizon è il sergente maggiore Thomas Riordan (Michael Rooker), trascende lo stereotipo per diventare una sorta di figura mitica. La scrittura lo conduce direttamente alle frontiere del ricordo dei grandi film fordiani. Non si sente il peso di un personaggio che non ha più nulla da dire, ma anzi emerge nel film una figura adattata, non tradita né fossilizzata. Questo per troppi altri personaggi non si può dire.
Molti sono costruiti in maniera ingenua, superficiale, senza tener conto del fatto che ognuno di loro è frutto di una particolare eredità che non solo va ricordata ma anche aggiornata.
È ovvio che essendo un primo capitolo di un’opera così ampia non si può insistere troppo su certe caratterizzazioni. Eppure bisognerebbe scrivere questi personaggi, proprio perché stereotipati e protagonisti di un primo capitolo, dotandoli di più fascino, di più ricchezza narrativa. Sono gli appigli emotivi e narrativi che devono farci abbreviare il tempo di distribuzione tra i due capitoli a un battito di ciglia, e portarci ad aspettare il secondo capitolo di questa saga annunciata come i bimbi aspettano il Natale. E troppi di loro non ci riescono.
Horizon, in breve
Non ci sono eccellenti ragioni per vedere il secondo capitolo se non una flebile speranza che le storie viste finora esplodano narrativamente nel secondo capitolo.
Ogni nuovo film renderà il fallimento della saga di Horizon più disastroso o il suo successo più inatteso; attenderemo gli ulteriori sviluppi, ma con questo primo capitolo siamo lontani dall’epica western e dal buon cinema.