Anselm, il film documentario diretto da Wim Wenders, è un omaggio del regista allo scultore tedesco Anselm Kiefer.
Il docufilm in formato 3D uscito quasi in concomitanza con Perfect Days è l’ennesima prova di come il Maestro del cinema sia capace di sfornare senza fatiche ben due capolavori in contemporanea (anche se noi, diciamocelo, non avevamo dubbi).
Anselm è stato presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes 2023, nella sezione Special Screenings, in concorso per L’Œil d’or, ma è molto più di un “semplice documentario”. Wenders evita di adottare un approccio biografico, concentrandosi direttamente sulla rappresentazione del personaggio.
Il film si apre con un suggestivo teatro (che ricorda le omonime opere di Lucio Fontana), in cui una serie di rami animati si sovrappongono, mentre sullo sfondo scorrono rapidamente una serie di fotografie che ritraggono l’artista dall’infanzia fino ad oggi.
L’uso del 3D? Una scelta saggia e intelligente: la decisione del regista di utilizzare per la terza volta nella sua carriera l’uso del 3D, che fa pensare subito a film come Avatar, si è rivelata, contro qualche aspettativa, una scelta giusta e ponderata. Con il 3D Wenders riesce perfettamente nell’intento di trasportare il fruitore dentro la poetica e la monumentalità delle opere di Kiefer.
Chi è Anselm?
Anselm Kiefer nasce l’8 marzo del 1945, pochi mesi prima della fine della Seconda Guerra mondiale. L’artista si è sempre confrontato con i grandi temi della nostra contemporaneità, del mito e della memoria, affrontandone anche gli aspetti più temuti e dolorosi. Nelle sue opere, ha più volte affrontato la storia della sua nazione, spingendosi oltre i miti e le leggende.
“Difficile ricostruire un paesaggio se ci è passato sopra un carrarmato”. Così esclama un critico giornalista durante un momento di videointervista riportato nel film.
La tematica ambientalista, in parte influenzata dalla scuola di Joseph Beuys, la fa sua instaurando un processo di ricostruzione e decostruzione del paesaggio; si ha l’impressione guardando Anselm, e il ritratto regalatoci da Wenders, che l’artista tedesco sia appassionato all’idea di dare forma ad ambientazioni per poi smembrarle. Kiefer si è interrogato a lungo sui “resti”, quindi sulle radici e su ciò che resta nella mente delle persone sotto il nome di “memoria collettiva” (e così anche Wenders).
Ci troviamo davanti all’opera di un artista materico che ha sempre dato luce e spessore ai substrati della mente e della percezione, servendosi di mezzi artistici classici mischiati con materiali di varia natura: argilla, gesso, vegetali (paglia, piante e semi di girasole, felci, papaveri, rami di alberi), cenere, sabbia e metalli pesanti (come il piombo), portati al punto di fusione e fatti sgocciolare su immense tele.
In perenne rielaborazione, l’opera di Anselm Kiefer si costruisce per strati e sedimentazioni. I materiali si accumulano, i dipinti diventano densi e subiscono gli assalti del tempo. Gli elementi raccolti disegnano nello spazio dei veri e propri paesaggi plastici. La stessa spessa matericità dei dipinti cattura e travolge lo spettatore in sala, che è letteralmente trasportato nel cuore di un’arte dell’eccesso, un’arte dove il tempo fa il suo lavoro e dove tutti sono invitati a perdersi e ritrovarsi.
Dove nasce l’opera di Kiefer?
I luoghi scelti per la narrazione del film includono la tenuta ‘La Ribaute’ a Barjac, situata a circa settanta chilometri a nord di Avignone. Questa dimora, che fu la residenza e il principale luogo di lavoro dell’artista fino al 2007, offre uno scenario suggestivo. Altri luoghi significativi sono l’attuale atelier a Croissy, nelle periferie di Parigi, la casa della sua infanzia a Ottersbach, in Germania, e infine il maestoso Palazzo Ducale a Venezia.
A Barjac, Kiefer ha compiuto un’impresa straordinaria: ha realizzato 30 padiglioni, con passaggi sotterranei, una cripta, un anfiteatro e torri pendenti. Quest’opera, di dimensioni imponenti, ha occupato Kiefer a 360 gradi. Si ha quasi l’impressione guardando l’imponenza delle sue creazioni che lui, da umano, si sia dovuto rimpiccolire per dare loro grandezza e vita. Del resto, Kiefer è stato “costretto” a muoversi in bicicletta, da uno studio all’altro, per proseguire il lavoro senza interruzioni.
In Anselm, Wenders non mostra il classico atelier, ma una sorta di officina, di “industria a cielo aperto”, dove si respira l’essenza dell’autore che viene comunicata in ogni sequenza del lungometraggio. Kiefer è tra le titaniche forze della storia dell’arte che hanno saputo trasformare il proprio studiolo nel vero concepimento della poetica personale. Per l’artista lo studio è origine e approdo, è il luogo fondamentale per capire sé stesso e i suoi lavori (e le primigenie idee di essi), ma è anche la possibilità di indagare la trasformazione del suo pensiero.
Wenders entrando intimamente nello “studio” di Anselm ci permette di fare un viaggio inibito a tutti, in cui l’artista esce dal mondo e diventa tutt’uno con la sua opera; è un ambiente nel quale il gesto vive nello spazio. Quando lavora, Kiefer, entra in uno spazio di assoluto isolamento e si comporta attenendosi ad una vera e proprio liturgia ripetuta quotidianamente.
Nazismo e svariate incomprensioni
Al centro di svariate riflessioni nella poetica di Kiefer e probabilmente anche nella mente di Wenders c’è il rapporto tra la loro terra d’origine e il passato tortuoso che l’ha attraversata. In Anselm un piccolo spazio viene infatti dedicato a Occupazioni, tra le prime produzioni dell’artista tedesco, una serie di autoritratti fotografici in cui Kiefer viene immortalato con la divisa militare del padre, mentre compie il saluto nazista. Scatti ampiamente criticati dalla stampa dell’epoca.
Wenders e prima di lui Kiefer, ci fanno interrogare sul rapporto tra presente e passato, male e bene, sul distaccamento da qualcosa che per lungo tempo ha caratterizzato l’identità di un popolo e che ora, per fortuna, sembrerebbe essere scomparso. Cosa è rimasto di quel movimento, di quella fase storica che ha macchiato la Germania per diversi anni? Questa domanda Kiefer se l’era fatta di sicuro prima di dare forma alla sua opera; del resto l’artista è la stessa persona che in quegli anni si chiese perché del nazismo, di quella fase così buia della storia della Germania, se ne parlasse così poco nelle scuole.
In effetti se non è la persistenza della memoria il significato della Storia, cosa lo è? Sicuramente la somma delle esperienze umane che ci permettono di capire il presente e plasmare il futuro, e che Kiefer trasmette attraverso la stratificazione di materiali significanti, testimonianze tangibili.
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