Vedere Spoiler Alert (in sala dal 1° giugno per Lucky Red e Universal Pictures International Italy), vederlo ora, in questo momento storico, in Italia, non è solo concedere un paio d’ore a una commedia romantica che diventa un dramma sull’amore, la malattia, gli alti e (molto) bassi dell’esistenza. È un gesto politico. Lo è perché nel nostro Paese, oggi, la sfera pubblica è intasata come non mai dalla retorica e dalla prassi regressiva di chi (anche e soprattutto nelle istituzioni) vorrebbe arrestare e smontare il cammino difficile e ancora lungo di chi domanda riconoscimento e diritti per il proprio modo di essere, di vivere, di amare.
E allora questa rom-com anomala, che non è né pretende di essere un’opera militante, nel nostro contesto assume valore di alternativa. Semplicemente mostrandoci la verità di una relazione tra due uomini, nei piccoli particolari e nei grandi, irrevocabili accadimenti che la compongono, negli avvicinamenti e allontanamenti, nelle incomprensioni e nelle tenerezze. Ma (spoiler!) il film diretto da Michael Showalter non è solo questo.
Di amori e di sorprese
Il finale della storia è noto, sin dall’inizio. E sin dal titolo del libro da cui si prende le mosse, Spoiler Alert: The Hero Dies. A Memoir of Love, Loss and Other Four-Letter Words, scritto dal giornalista e critico televisivo Michael Ausiello (firma di TV Guide e poi di Entertainment Weekly, interpretato nel film da Jim Parsons), che racconta il suo amore durato 14 anni con il fotografo Kit Cowan, la loro vita a New York e (specialmente) i loro ultimi mesi insieme. Quelli che vedranno Kit affrontare un tumore maligno inoperabile sino alla morte nel 2015 ancora quarantaduenne.
Come sempre, quando sappiamo già la (tragica) conclusione di una vicenda, la nostra mente di spettatori continua a coltivare la speranza, irrazionale, che i fatti a un certo punto prenderanno un’impossibile piega differente da quella che conosciamo.
Lo speriamo, mentre osserviamo la vita di Michael rievocata e commentata da lui stesso. La sua infanzia difficile di bambino orfano con problemi di obesità, il suo lavoro che lo mette a contatto con le amatissime serie TV (e sit-com in particolare) nei cui mondi ha imparato a rintanarsi. Ma che non lo riscattano mai davvero e del tutto dalle insicurezze sul piano relazionale. Per quello, servirebbe un partner disposto ad accettare ciò che rende Michael unico e imperfetto, fragile e fuori dal comune, dalla stanza tappezzata di pupazzi dei Puffi alla difficoltà a spogliarsi. Qualcuno come Kit, appunto.
Continuiamo a osservare la nascita, la crescita e la temporanea crisi del rapporto tra i due, fino all’inevitabile notizia sullo stato di salute di Kit. La coppia si (ri)avvicina come forse mai prima di allora, arrivando persino a sposarsi, ma nessun esame medico o ciclo di chemioterapia modifica l’esito. Eppure, accade comunque qualcosa che non ci aspettavamo.
Il film non affonda, come si poteva temere, nel melodramma ricattatorio, nello schiacciare la rappresentazione dell’amore omosessuale sui temi della malattia, della sofferenza, del lutto. L’ironia, delicata e complice, continua a pervadere una narrazione che si mantiene al di qua del facile pietismo. Perché, come ha sottolineato il co-protagonista Ben Aldridge (lui stesso, come Parsons, gay dichiarato), ciò che conta qui è «lo spazio per celebrare la normalità, la gioia di chi siamo».
Di verità e di finzioni
Spoiler Alert, allora, ci sorprende non per il suo finale, ma per come ci arriva, lavorando sull’elaborazione di dettagli e sfumature dell’esperienza reale, ben restituiti (anche) dalle due guest-star, Bill Irwin e la due volte premio Oscar Sally Field, che interpretano i genitori di Kit, con un’intensità lontana da ogni enfasi o stereotipo.
Ma c’è un altro elemento che rende il film qualcosa d’altro e di più di un dramedy strappalacrime, e persino più di una “semplice” love-story. A partire dall’incontro tra l’autore del testo (autobiografico) originario Ausiello, nerd dichiarato delle sit-com, e un divo di queste ultime, il protagonista e co-produttore dell’adattamento Jim Parsons (alias lo Shledon di Big Bang Theory), l’intera opera si arricchisce infatti di una stratificata componente metatestuale.
Il film, cioè, si muove costantemente sul crinale tra verità (e impressione di autenticità) del contenuto ed esposizione consapevole dei meccanismi della finzione. Dall’infanzia di Michael, ripensata come la divertente commedia familiare che non è stata al guizzo del pre-finale (questo non lo spoileriamo), passando per una voce narrante che ci dice: «Ora sto zitto» (senza mantenere il proposito), il film riflette e ci fa riflettere sul rapporto tra la realtà delle nostre relazioni e i codici con cui le rappresentiamo. Ricordandoci che questi ultimi non sono necessariamente (solo) un rifugio per negare le asprezze dell’esistenza fuori dagli schermi. Perché le forme del nostro raccontare (e raccontarci) sono una parte di noi, e nutrono la complessità inesauribile del copione delle nostre vite.