Beau ha paura Cr: I Wonder Pictures A24

Parlare di un film come Beau ha paura, ultima opera di Ari Aster in uscita nelle sale italiane dal 27 aprile, è un lavoro complesso e rischioso, perché all’interno di una trama costellata di alti e bassi, colpi di scena e surrealismo, si cela un fitto sottobosco di psicologia umana in frantumi e cinismo che schiaccia il pubblico (forse fin troppo).

Ma proviamo ad andare con ordine.

Sinossi

Beau (Joaquin Phoenix) è un uomo di mezza età che vive una vita di insicurezze e paure dettate da elementi reali e non solo. A causa di una serie di eventi sfortunati al limite dell’impossibile, Beau perde l’aereo per tornare a casa da sua madre, la quale poco dopo muore, dando inizio all’odissea per riuscire a partecipare al suo funerale.

Si snoda così un universo di situazioni messe in fila in un climax discendente di irrazionalità e ansia, una discesa agli inferi della propria vita, di ciò che si conosce (e non si conosce) mosso principalmente da ciò che più spaventa Beau e anche le persone dall’altro lato dello schermo.

Le paure

In una sorta di rimasterizzazione de Il lamento Portnoy di Philip Roth, Aster, la cui carriera è segnata da un approccio all’horror molto più sottile e mentale rispetto a quello di molti suoi colleghi di questo genere, decide di prendere a piene mani tutto ciò che rappresenta, soprattutto per uomini come lui, un  agglomerato di eterne paure e ansie: dal complesso di Edipo e il mai risolto rapporto con la figura materna, fino al senso di colpa, passando per una visione disturbata (e disturbante) del sesso e della realtà in generale.

Utilizzando, infatti, CGI e altri effetti speciali ad alto budget, il regista getta Beau e le sue idiosincrasie universali in un mondo sempre meno reale, che forse è tutto frutto di un piano incontrollabile come in The Truman Show o è semplicemente frutto di un’allucinazione da psicofarmaci assunti senza acqua, non ci è dato saperlo. E, forse, non importa proprio perché quest’incapacità di riconoscere il reale dall’immaginario, le aspettative dalle azioni concrete, i ricordi dai sogni è solo l’ennesimo tassello per farci capire che, dopotutto, non servono mostri o fantasmi per farci avere paura, perché le paure arrivano nell’esatto momento in cui emettiamo il primo gemito alla nascita (e magari anche prima).

Ari Aster, dunque, dopo Midsommar ed Hereditary decide di alzare la posta e realizzare un’opera (lunghissima ai limiti del sostenibile) che vada oltre il semplice jump-scare e possa entrare sottopelle, aggredendo le ansie che vivono in maniera parassitaria all’interno del suo pubblico, sopite e solo in attesa di essere pungolate per tornare a tormentare chi le ospita.

Nonostante le migliori premesse e l’idea mai banale di toccare nel profondo chi si trova in sala, sarebbe impossibile dire che il film riesca pienamente a raggiungere gli obiettivi che vorrebbe prefissarsi.

I limiti

Senza tralasciare la già citata e respingente lunghezza della pellicola (159 minuti), Beau ha paura è ovviamente un progetto troppo ambizioso per potersi definire riuscito: pieno zeppo di stili e immagini e generi, finisce per diventare un caos calmo di un uomo spaventato in cui non c’è proprio una trama e non c’è veramente un coinvolgimento che riesce ad andare oltre a un target diverso da quello rappresentato dal regista stesso. E nonostante l’intelligenza delle idee e una capacità sempre deliziosa di mettere in scena situazioni in cui dolore e paura si giustappongono a scenografie e inquadrature che sono un piacere per gli occhi, ciò che rimane sono solo quasi tre ore in cui si è tentato in tutti i modi di sollecitare l’inconscio di chi guarda, in maniera fin troppo eccessiva e didascalica.

Alla fine della storia, insomma, tutto ciò che sappiamo con certezza è ciò che sapevamo anche all’inizio e cioè che Beau ha paura, che forse ce l’abbiamo anche noi e che non c’è veramente un modo per uscirne e per riuscire ad arginare tutto l’imprevedibile che le peggiori ansie portano con sé. Che questo valga il prezzo del biglietto, poi, è tutto un altro discorso.

Continua a seguire FRAMED. Siamo anche su FacebookInstagram Telegram.

Giulia Nino
Classe 1996, cresce basando la sua cultura su tre saldi pilastri: il pop, i Simpson e tutto ciò è accaduto a cavallo tra gli anni ’90 e 2000. Nel frattempo si innamora del cinema, passando dal discuterne sui forum negli anni dell’adolescenza al creare un blog per occupare quanto più spazio possibile con le proprie opinioni. Laureata in Giurisprudenza (non si sa come o perché), risiede a Roma, si interessa di letteratura e moda, produce un podcast in cui parla di amore e, nel frattempo, sogna di vivere in un film di Wes Anderson.