Cleopatra Burton Taylor

Il 12 giugno 1963 usciva nei cinema mondiali un film epico-storico di 4 ore, Cleopatra, scritto e diretto da Joseph L. Mankiewicz, protagonisti Rex Harrison, Elizabeth Taylor e Richard Burton.

Opera dalla produzione disastrata e costosissima, circondata da un’aura scandalistico-mitica per il legame creatosi fra Taylor e Burton, resta una delle più titaniche e sfarzose mai portate a termine nel campo della cinematografia.

L’alba del grande impero romano

Giulio Cesare (Rex Harrison) ha appena vinto a Farsalo e fugge in Egitto per inseguire il suo avversario Pompeo. Qui cade vinto, ma dall’amore per la regina Cleopatra (Elizabeth Taylor). I due diventano presto amanti, dando grande scandalo nel mondo romano.

Le sue ambizioni riguardo il potere lo conducono in pochi anni a essere assassinato in senato. Alla sua morte il potere viene diviso tra il figlio adottivo Ottaviano (Roddy McDowall) e il suo fidato generale Marco Antonio (Richard Burton), anch’egli innamoratosi della sovrana dell’Egitto.

Lo scontro inevitabile tra i due vedrà gli amanti d’oriente condannarsi al suicidio e il giovane ragazzo ascendere al ruolo di imperatore di Roma.

Dentro l’inferno della produzione:

Da Londra… 

Costato 31 milioni di dollari, cifra che all’epoca ne fece il film più costoso di sempre, viene ricordato per i numerosi inconvenienti e problemi che sorsero durante la sua lavorazione.

La 20th Century Fox scelse inizialmente come regista Rouben Mamoulian. Peter Finch doveva interpretare Cesare, Stephen Boyd Antonio e Keith Baxter Ottaviano.

Elizabeth Taylor, l’unica del cast originale a rimanere, fu pagata 1 milione di dollari.

Quando a Londra iniziarono le riprese, quasi subito l’attrice si ammalò gravemente. Mentre la produzione era ferma in ogni suo aspetto, i costi galoppavano senza tregua. La sceneggiatura venne riscritta varie volte. I principali attori, esclusa la Taylor, abbandonarono il lavoro. I litigi tra lo studio e Mamoulian portarono al suo licenziamento.

Dopo 16 settimane di lavoro e 7 milioni di budget, erano stati girati solo 10 minuti di pellicola.

…a Roma

L’arrivo di Mankiewicz, reduce dell’adattamento cinematografico del Giulio Cesare di Shakespeare nel 1953, salvò la produzione. Dopo che Taylor cadde ammalata per la seconda volta si spostò l’intero set a Roma. Più ore di luce per girare e un clima più caldo per scongiurare i malanni.

A Rex Harrison e Richard Burton furono affidati i ruoli di Finch e Boyd. A Roddy McDowall fu data la parte di Ottaviano.

La sceneggiatura finale, passata direttamente a Mankiewicz, contava oltre 300 pagine. Dei due film originariamente previsti, si optò per un solo lungometraggio di 4 ore.

Alla fine del progetto la 20th Century Fox era in ginocchio per i costi di produzione. Gli azionisti chiedevano a gran voce un cambio di direzione. Il presidente Spyros Skuras diede le dimissioni, concludendo il suo ventennale mandato storico, e molti altri dirigenti furono licenziati poco dopo.

Tutto quel talento

La performance di Sir Rex Harrison nei panni del condottiero è meravigliosa. La sua raffinatezza modella un Cesare aristocratico e spavaldo. Elizabeth Taylor risalta per tutto il film. Bella come una statua di oro e avorio, sensuale e divina, l’attrice non lesina il suo talento recitativo nel regalarci un personaggio che è più vivo nei suoi atti e nelle sue parole che in mille saggi storici.

Burton invece è altalenante. Benchè riesca a reggere il lato arrogante del personaggio, non esterna altrettanto bene la tragicità del generale confinato nell’ombra di Cesare. Risulta più petulante e lagnoso che altro, sebbene le sue scene con la Taylor sembrino fin troppo realistiche.

Martin Landau, qui nel ruolo di Rufio, sposa una recitazione marziale ad un fedele servo della volontà cesariana. Tiene testa a Burton nelle loro scene in maniera memorabile. Ma dove c’è campo libero, è Roddy McDowall con il suo Ottaviano ad emergere con grande stile. Infido e astuto, il suo giovane romano è simile al Mordred che interpretò a Broadway nel musical del 1960, Camelot. Assecondando l’indole fastosa del film e quella complottistica della storia reale, l’attore rende tangibile l’ascesa del suo personaggio ai vertici del potere tra grandi discorsi e memorabili minacce. 

Ottaviano: “Io sono Cesare.”
Germanico: “Solo finché Antonio rimarrà lontano da Roma. [declamando] Antonio! Non rimanere troppo ad Alessandria!”
Ottaviano: “Germanico, non rimanere troppo a Roma”

Discussione in senato sulla condotta licenziosa di Marco Antonio in Egitto

Quando dista da noi l’epica?

Il periodo tra gli anni ‘50 e ‘60 fu l’apice produttivo di film immediatamente riconoscibili come epici. Ben-Hur, Spartacus, Lawrence d’Arabia e Guerra e Pace, sono alcuni di questi.

Ma lo sono anche i più intimi Andrei Rublev, I Sette Samurai, Marketa Lazarova e La Condizione Umana. Dopo quest’epoca continuarono ad esserci film definiti epici.

Ma oggi? Come si fa oggi a definire epico un film?

L’aggettivo “epico” riferito ad un film non è ascrivibile al suo costo, al suo tema, alla sua durata o al metodo di produzione usato.

L’epicità di un film è dettata dalla portata della sua visione e dalla consistenza dell’idea realizzata. E inevitabilmente tutto questo non si realizza solo con molti soldi, molti minuti, un tema valido e una tecnica ricercata. Dev’esserci una crasi totale tra alcuni di questi elementi in un amalgama in grado di penetrare l’occhio umano. L’idea del film deve piantarsi in noi come un seme e germogliare durante la visione. Più che riempire lo sguardo deve riempire tutti i sensi. Allora saprai che stai guardando un film epico.

Fai pure il conquistatore, potente Cesare. Massacra pure milioni di esseri umani. Ma né tu né la tua accozzaglia di barbari avete il diritto di distruggere un solo pensiero umano!

Cleopatra (Elizabeth Taylor) a Cesare

La coppia più glamour degli anni ‘60: il figlio del minatore e l’imperatrice

Qui nacque la loro relazione, la più scandalosa dai tempi di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman.

Lui, un rude gallese di quasi 40 anni, stella del teatro shakespeariano che si sarebbe presto bruciata, reduce dal successo a Broadway del musical Camelot. La sua carriera cinematografica negli anni ‘50 oscillava da My Cousin Rachel (1952) e The Rope (1953), per i quali ottenne due candidature agli Oscar, al recente successo in patria ottenuto con Look Back in Anger di Tony Richardson (1959). In mezzo c’era ben poco.

Lei, da poco trentenne, cresciuta sui set cinematografici americani. Una delle poche attrici che recitarono dall’età adolescenziale fino alla vecchiaia. Gli anni ‘50 la videro raggiungere le vette celesti dell’industria cinematografica. Sul set di Cleopatra si presentò con quattro candidature all’Oscar e una vittoria per Butterfield 8 (1960). In quel momento era una star che non aveva bisogno di presentazioni.

L’ubriacone e la mondana

La coppia Burton/Taylor fu poco meno distruttiva di un ciclone. Richard era un colossale ubriacone. Le imprese legate al suo vizio di bere sono leggendarie. Elizabeth era affascinata e divertita dalla sua virilità tossica. Avvezza anche lei alla bottiglia, era un’amante impareggiabile del lusso e dei gioielli.

Furono altresì mitici i loro litigi, e spesso ne fecero le spese poveri innocenti.

Il critico di teatro Kenneth Tynan fu invitato da Burton nella sua villa. Lì lo prese in giro chiedendogli se avrebbe voluto andare a letto con sua moglie. Per divincolarsi in maniera non offensiva, il critico disse che non sapeva se ce l’avrebbe fatta con una tale donna. Fu Elizabeth Taylor stessa, offesasi per quella frase, a cacciarlo malamente da casa loro. Il giorno dopo l’attrice fece recapitare le sue scuse al critico.

I quotidiani degli anni ‘60 ebbero sempre due tipologie di articoli per loro: quelli della critica che li osannavano in quello che fu il loro periodo d’oro nel cinema e quelli di gossip che documentavano le loro grottesche pazzie e le folli spese.

In breve

Non è uno dei migliori film del suo genere, perché l’epica vera annega nelle scene colossali che servono a stupire lo spettatore con la loro asettica magnificenza. Poca azione effettiva e poco dramma umano in un prodotto che risulta sfavillante ma piatto.

Ma c’è un gusto quasi proibito nel godersi questo crocevia della storia del cinema e del gossip legato ad essa. Gli attori sono magnetici e ci conducono in una galleria pacchiana e lucente dove saremo assuefatti dallo sfarzo produttivo e dall’arguzia recitativa di alcuni interpreti. Io ne raccomando la visione.

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Francesco Gianfelici
Classe 1999, e perennemente alla ricerca di storie. Mi muovo dalla musica al cinema, dal fumetto alla pittura, dalla letteratura al teatro. Nessun pregiudizio, nessun genere; le cose o piacciono o non piacciono, ma l’importante è farle. Da che sognavo di fare il regista sono finito invischiato in Lettere Moderne. Appartengo alla stirpe di quelli che scrivono sui taccuini, di quelli che si riempiono di idee in ogni momento e non vedono l’ora di scriverle, di quelli che sono ricettivi ad ogni nome che non conoscono e studiano, cercano, e non smettono di sognare.