Ricordo ancora quando fu annunciato l’adattamento seriale di The Last of us. Da fan del videogioco della primissima ora, l’entusiasmo iniziale del momento lasciò immediatamente il passo al dubbio. Nessun adattamento tratto dal media videoludico era mai riuscito a fare effettivamente il passo transmediale, restituendo una sensazione che andasse oltre la mera opera per i fan. Persino il fatto che fosse nelle mani di HBO e che al bravissimo Craig Mazin (Chernobyl) fosse affiancato il creatore originale Neil Druckmann, non riusciva a dissipare le incertezze.
Ma se siete qui già lo sapete: The Last of Us ce l’ha fatta. Ma non si è limitato ad una riproposizione uno ad uno del capolavoro Naughty Dog. Lo ha fatto senza timore dei fan, del mondo Alt-right che già aveva preso di mira il secondo capitolo del videogioco, o del pubblico non videoludico. Craig Mazin e Neil Druckmann hanno creato una serie a tutti gli effetti, indipendente dal resto, creata e pensata per il media televisivo. Da qui in poi SPOILER ALERT.
Il viaggio verso la Frontiera (del genere) di Ellie e Joel
The Last of Us, esattamente come il videogioco, si basa su una solida struttura di genere dalla quale si ramifica la storia, e dalla quale la narrazione si concede di allontanarsi (come spesso accade), per poi tornarci nel momento di andare avanti, di tirare le somme. Una struttura basata su due elementi di genere, uno di sfondo/ambientazione e un altro di movimento della storia e dei personaggi.
Ed infatti il genere post-apocalittico è lo scenario portante della narrazione. Un fungo, il Cordyceps ha scatenato una pandemia mondiale che trasforma le persone che vi entrano in contatto in feroci zombie il cui unico scopo è diffondere spore e insanità ovunque. Gli Stati e i governi si sono disgregati, le poche comunità più grandi rimaste (ZQ, Zone di Quarantena) sono sotto il controllo autoritario della Fedra, ciò che rimane delle vecchie autorità statunitensi. Ed ad essa si oppone un gruppo rivoluzionario, le Luci che ha lo scopo di liberare la popolazione dal controllo fascistoide nelle ZQ.
Ma ad esso si affiancherà a livello narrativo il motore: il movimento verso la (nuova) Frontiera del genere western. Ovvero il viaggio dalla costa orientale (Boston) verso ovest di Ellie e Joel, con destinazione un centro di ricerca delle Luci, e l’obiettivo di ottenere un vaccino dall’immunità al fungo di Ellie. Un viaggio che riprende esattamente quello verso il Far West. Verso però un ovest non più da scoprire ma da RIscoprire, dove lo spirito di avventura lascia il passo alla disperazione, alle macerie e al pericolo non solo degli infetti, ma anche (e principalmente) degli altri uomini. Con il viaggio di scoperta originale questa nuova migrazione condivide soltanto la fievole speranza di un futuro migliore.
Un luogo regredito a tempi antichi (per gli USA), dove piccole comunità si sono riunite per autodifendersi nei loro “fortini”, in cui possono essere preda di fanatici rivoluzionari (come nell’episodio 5, Endure and Survive) o di sette ultrareligiose (episodio 8 When We Are in Need). In mezzo però anche la comunità oasi (nemmeno tanto velatamente comunista) di Jackson, dove Ellie e Joel si soffermeranno da Tommy, e che sarà l’unico momento di respiro di una traversata che deve però riprendere ad ogni costo.
Se quindi il genere post-apocalittico si impone come sfondo caratterizzante e il movimento verso la Frontiera lo attraversa (con una buona dose d’ispirazione da La strada di Cormac McCarthy), come si sviluppa effettivamente la narrazione?
Il racconto in The Last of Us
Se la fabula della storia risulta quindi piuttosto lineare ed evidente, l’intreccio, ovvero il come è raccontata dal duo Mazin e Druckaman, è stato indubbiamente una sorpresa.
Diversamente da quanto si poteva immaginare, nella stagione assistiamo ad una sostanziale divisione in blocchi con rilevanti salti temporali da una parte della storia all’altra, che in genere avvengono circa ogni due episodi, intervallati da isole narrative a sé stanti. E se questo è servito per rendere più snello il racconto ed evitare ridondanze, la sorpresa più evidente sono le incursioni narrative “esterne”, storie che vanno ad inserirsi in quella dei due protagonisti.
Come ovviamente non citare il terzo episodio, Long, Long Time, che meriterebbe un’analisi tutta sua, con la struggente storia d’amore tra Bill, un lupo solitario e Frank, viaggiatore che per caso si imbatte nella “fortezza” del survivalist. Un racconto che grazie alla scrittura delicata e mai melensa, oltre a regalarci uno degli episodi più importanti dell’intera serialità, si va ad incastonare perfettamente nel racconto principale, andando ad influenzare direttamente i protagonisti, le loro emozioni e i sentimenti che provano.
Una necessità quella di The Last of Us di raccontare altro, di far notare che Ellie e Joel non sono il centro del mondo e che per quanto importante sia il loro ruolo per il destino dell’umanità, c’è dell’altro. Come accade nell’episodio 5, Endure and Survive, con la storia dei due fratelli Henry e Sam, monito per i due protagonisti sulla fragilità della vita. Ma anche l’episodio 7, Left Behind, che pur perdendosi un pochino nella narrativa nel suo insieme (forse unico mezzo passo falso di tutta la serie), ci racconta il passato di Ellie e il suo rapporto con Riley, e di come questo stia influenzando quello con Joel.
The Last of Us quindi non sceglie la linearità nel raccontare la sua storia, come sarebbe stato un po’ scontato ed ovvio. Ma decide di farsi a pezzi, concedersi divagazioni (sempre pertinenti), non lasciarsi mai andare alla tentazione di dilatare la narrazione, resistendo nel raccontare in una stagione tutto il primo capitolo del videogioco.
Il cast e la regia
In tutto questo, tra morsi, zombie e feroci predoni, il centro di tutto resta il rapporto tra Ellie e Joel. Un rapporto inizialmente diffidente, da parte di entrambi, che con il tempo si evolve fino a diventare a tutti gli effetti un rapporto padre/figlia. Tale relazione si va ad incastrare nel passato di Joel in cui la morte della figlia Sarah, raccontata nel primo episodio, va direttamente ad influenzare quello conclusivo, con la scelta folle e un po’ egoistica di Joel di fare in modo che non succeda anche alla sua “seconda figlia”.
Pedro Pascal e Bella Ramsey fanno un lavoro eccellente restituendoci la credibilità dei personaggi e delle loro emozioni, nonostante le critiche già partite prima della messa in onda. “Una Ellie poco rassomigliante a quella del videogioco o le origini di Joel messicane”, le obiezioni di un piccolo gruppo di pubblico videoludico (che rispetto alla giovane età del media, cova dentro di sé forti forme di reazionarismo) sono state assolutamente annullate. I due, ma soprattutto Bella Ramsey, riescono a creare una chimica non scontata che non ci fa dubitare mai un momento delle loro emozioni e sentimenti.
Alle loro interpretazioni si accompagna anche una regia ed una fotografia per nulla scontate che, pur lasciandosi talvolta andare in qualche virtuosismo, procedono solide, al servizio della narrazione e dei personaggi. Arrivando qualche volta a riprendere alcune scene del videogioco, più per gioco contrappuntistico, per non dimenticare da dove si è partiti.
E la scena che apre l’ultimo episodio è un chiaro riferimento a questo: dal punto di partenza a quello d’arrivo. Il racconto della nascita di Ellie non è altro che quello della serie, concetto rafforzato dalla scelta di Ashley Johnson nell’interpretazione della madre, che grazie alla voce e alle sue interpretazioni riprese dal motion capture aveva dato vita alla stessa Ellie nel videogioco. La serie televisiva non è una semplice figlia del videogioco, così come Ellie non è una semplice figlia della madre, perché proprio quel parto è all’origine della sua immunità.
The Last of Us e Ellie sono speciali perché proprio durante la loro nascita qualcosa ha cambiato il loro destino. Rendendoli unici e diversi da quelli sarebbero potuti banalmente essere.
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L’illustrazione originale è di Cristiano Baricelli, che ringraziamo. Qui il suo sito ufficiale.